I silenzi sulla giustizia impazzita
Si può avere “fiducia nella magistratura” senza che Csm e correnti siano reinventati da zero?
A nessuno per fortuna verrà in mente, lo spero, la formula “toghe pulite”. Sarebbe un passo falso e dannoso verso la semplificazione demagogica, come furono “mani pulite” o “mafia capitale”, generalizzazioni imbastardite del giudizio che hanno portato a movimenti ruspanti incapaci di tutto e a una sindacatura che non è in grado di fare il minimo del decente. D’altra parte c’è una ragione che spiega un fatto: nessuno ha mai detto “ho fiducia nei partiti politici”, i cittadini sanno istintivamente che i partiti sono la democrazia rappresentativa e dunque li rappresentano, ma con tutto il carico di peccatucci e ribalderie che è tipico della società civile, per non parlare della Ragion politica che è diversa dalle procedure e dai criteri dell’etica. La magistratura, così voluta dai partiti politici costituenti, deve essere al di sopra di questa degenerazione spontanea del giudizio, nel segno della terzietà e del libero esercizio di un mestiere validato da concorsi e non dalla rappresentanza civile, infatti tutti ripetono da sempre, galantuomini e manigoldi all’unisono, “ho fiducia nella magistratura”. Ma fino a che punto si può avere fiducia nella magistratura, oggi, in Italia, senza che il suo parlamento e i suoi partiti, Csm e correnti e cordate e famiglie o clan, siano profondamente riformati e per così dire reinventati da zero?
La domanda è imbarazzante ma ammissibile. Forse necessaria, visto il trattamento informativo minimizzante che connota gli affliggenti scandali di queste settimane in settori vastissimi dell’ordine giudiziario. Non è in questione la bassezza di certa corruttela, che si insinua dappertutto, dalle parti di qualche magistrato, nelle baronie universitarie e concorsuali, tra la pubblica amministrazione che non fa quel che dovrebbe e lavora in nero per arrangiarsi, fino a mille altri casi. E’ una questione di sistema, come dicono i sociologi e i politologi. La corruzione estesa segnalata dalle inchieste di Milano di quasi trent’anni fa, e poi riprodottasi in varie forme nonostante le velleità del repulisti moraleggiante, aveva e ha la sua radice nel finanziamento opaco, irregolare o illegale della politica di partito e dei suoi rappresentanti. Allo stesso modo corruzioni e deviazioni di vario genere della magistratura incarnano un sistema opaco, irregolare o illegale di avanzamento e carriera al centro del quale, lo si è visto, non sta affatto il famoso autogoverno corporativo dell’ordine, magari nel segno della selezione per merito, ma una battaglia sorda, intrisa di politicità politicante, di ansie e vocazioni e ambizioni sbagliate delle cordate al potere e al più sbilenco uso di questo potere, molto spesso in alleanza non solo con i partiti ma più ancora con i media, come sempre alfieri di caratterizzazioni e caricature timbrate dall’onestà retorica, onestà-tà-tà, e dalla tardiva e clanistica denuncia delle violazioni etiche del presunto avversario in favore del presunto amico.
Senza finanziamenti non si fa politica, da Craxi e Forlani ai 49 milioni della Lega, ma il fomite della degenerazione sta nel fatto che la questione non è regolamentata in modo serio e responsabile. E questo tutti lo sapevano, come emerse quando Craxi prese la parola alla Camera chiamando in causa i suoi colleghi o confratelli. Vale anche per la rovinosa caduta di larghi settori della magistratura: non si può decentemente negare il carattere anche politico del parlamento dei giudici, per la sua funzione e la sua composizione, ma il potere e le carriere si decidono e si contrattano all’ombra dell’ipocrisia, come i finanziamenti dei partiti d’antan (d’antan?).
E così come il controllo del denaro era necessario ai capi di partito in conflitto, anche e sopra tutto perché se non lo controlli tu, il denaro lo controlla un altro, altrettanto vale per il potere decisionale giudiziario: tutti si adattano o quasi tutti, dal procuratore della Cassazione in giù, a una misura di politicizzazione riservata e familistica nella sua determinazione. La cosa, come per i partiti, può essere fatta con un certo stile, e al riparo dalla corruzione personale, o nel solito modo del malaffare, ma la cosa è quella, checché ne dica il procuratore di Milano, che attribuisce alla romanità e a vizi personali una cattiva qualità dell’intero sistema.
La domanda da farsi è dunque semplice. Se abbiamo aperto un capitolo di revisione radicale della Costituzione materiale del paese, addirittura liquidando il patrimonio storico dei partiti che avevano scritto la Carta fondamentale nel Dopoguerra, davvero pensiamo che non sia necessario passare a una Seconda Repubblica anche nel campo, decisivo quanto la politica, dell’amministrazione della giustizia? Davvero possiamo permetterci di considerare esente dai doveri della verità, della critica più radicale e del cambiamento di strutture, procedure, regole e uomini il sistema di amministrazione della giustizia?
Giuliano Ferrara