Abolire il carcere, un'idea anarcoide e mainstream
Nell'America dell'incarcerazione di massa, gli abolizionisti attaccano i pilastri filosofici che reggono il sistema. Un dibattito fra Kant e Darwin
Il pensiero dominante è un tentativo minuscolo che si prefigge uno scopo eccessivo: scavare nel provvisorio alla ricerca del definitivo. O almeno di qualche suo vago indizio. Ogni martedì si darà spazio a un tema di inattualità tentando di stanare le idee che se ne stanno quatte quatte sotto la superficie mobile dei fenomeni. Si tratterà di politica, cultura, filosofia, storia, scienze umane, letteratura, ma anche di parole, sentimenti, concetti, astrazioni, polemiche e cazzeggi, sempre orientati alla ricerca di una qualche universalitatem in rebus. Seguendo le indicazioni del direttore irresponsabile della testata, Giacomo Leopardi, si svolazzerà fra “la terrena stanza” e “l’alte vie dell’universo intero”. Possibilmente senza farsi male. Lo sforzo sarà alimentato da quell’oncia di pregiudizio che sorregge ogni ragionevole ricerca. Il pensiero che domina questo esordio è l’abolizione del carcere, idea anarcoide e impraticabile che ha preso piede nelle stanze meglio arredate della politica e dell’accademia americana. È un dibattito fra teorie competitive della giustizia, collegato – in modo quasi invisibile – a una disputa secolare sulla natura del male e sulla liceità morale e necessità sociale di punire chi lo commette con la reclusione. Rendere visibile questo collegamento è il proposito dell’articolo che trovate qui sotto. Per aggiungere un elemento di riflessione pubblichiamo anche il dialogo fra il diavolo e un prete che Fëdor Dostoevskij ha scritto sul muro della cella in cui era rinchiuso nel 1849, sospeso fra le immagini di un inferno nell’aldilà e l’inferno già in atto nell’aldiquà.
Il dibattito sull’abolizione delle carceri è uscito dalla clandestinità ed è affiorato nel mainstream. Fino a pochi anni fa nessuno era contrario allo strumento della carcerazione in sé, fatta eccezione per una carboneria della sinistra radicale, qualche filosofo vetero-marxista e un manipolo di reduci anarchici che ancora credeva nelle battaglie combattute da Emma Goldman nella prima metà del secolo scorso.
Nel 2015 l’attivista e commentatore democratico Van Jones ha lanciato la campagna #cut50 per ridurre la popolazione carceraria americana del 50 per cento. Allora anche i più generosi riformisti in materia di giustizia penale hanno accolto l’idea storcendo il naso. Oggi è considerato un obiettivo troppo prudente e pragmatico, dunque un ostacolo sulla via dell’abolizione, e prova ne è il fatto che Jones è stato ricevuto da Donald Trump e la sua visione è guardata con favore da Jared Kushner, impegnato nel ridurre la popolazione carceraria. Nella tortuosa evoluzione del dibattito, il possibile è diventato nemico dell’ideale.
Alexandria Ocasio-Cortez, portavoce presso il palazzo dei democratici d’impronta socialista, ha abbracciato ufficialmente la causa abolizionista. Lo ha fatto lo scorso anno con un saggio pubblicato su America, la rivista dei gesuiti americani, imboccando la via di uno spericolato sincretismo fra il catechismo della chiesa cattolica e la fiorente letteratura neo-marxista che qualifica il sistema carcerario come strumento – o sovrastruttura – delle oppressioni economiche e razziali che caratterizzano strutturalmente il sistema. Nella sua visione, la remissione dei peccati va a braccetto con l’espiazione delle colpe dell’uomo bianco e capitalista, che un tempo schiavizzava apertamente gli afroamericani e oggi li schiavizza surrettiziamente tramite l’incarcerazione. Attivisti come Angela Davis, membro storico del partito comunista americano, o Ruth Wilson Gilmore, professoressa della City University of New York, parlavano da decenni della necessità di smantellare il sistema carcerario, ma i loro argomenti non hanno avuto finora la forza per accreditarsi nei circoli intellettuali più blasonati e per smuovere la coscienza collettiva in un paese calvinisticamente ossessionato dall’idea della punizione. La svolta è arrivata quando la Harvard Law Review ha dedicato il numero di aprile al dibattito sull’abolizione delle carceri.
Il dramma del sistema carcerario americano è noto. Gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale per tasso d’incarcerazione, mantenendosi senza sforzo davanti a paesi come Cuba, Russia, Iran e Arabia Saudita nonostante una diminuzione complessiva delle sentenze detentive del dieci per cento nell’ultimo decennio. La popolazione carceraria americana è di circa 2,3 milioni di persone, cifra che equivale a oltre il venti per cento della popolazione carceraria mondiale (la popolazione americana complessiva è il 4 per cento di quella globale). Per oltre la metà si tratta di afroamericani e ispanici. Le prigioni americane non sono luoghi di riabilitazione e reintegro. Soltanto una piccola percentuale dei detenuti lavora all’interno delle strutture, e quelli che possono farlo guadagnano una cifra compresa fra 70 centesimi e quattro dollari al giorno. Chi esce dopo aver scontato la pena per un crimine violento ha il 70 per cento delle probabilità di essere arrestato nuovamente nel giro di tre anni. La detenzione in America è stata usata come strumento di controllo delle patologie sociali: con preoccupante sistematicità, in carcere finiscono i poveri, le minoranze etniche, chi ha disturbi mentali, i senzatetto, i reietti e gli emarginati di ogni genere.
Questi dati sconcertanti hanno generato iniziative bipartisan, una rarità in questi tempi di polarizzazione ideologica. I fratelli Koch, finanziatori del mondo conservatore, lavorano insieme al finanziere liberal George Soros, che alla riforma del sistema carcerario ha dedicato ingenti energie e risorse. Trump si è espresso sulla questione in termini non dissimili da quelli usati dal suo predecessore, Barack Obama. Le uniche proposte di legge sponsorizzate da democratici e repubblicani al Congresso riguardano la riforma della giustizia penale e la riduzione della popolazione carceraria. Ma gli abolizionisti non vogliono riformare il sistema carcerario: vogliono appunto abolirlo. L’approccio gradualista è visto come un tentativo di curare i sintomi senza occuparsi della patologia. L’abolizione, invece, si propone come una dottrina morale che dà fondamento a una teoria della giustizia in radicale contrasto con quella vigente. Si tratta di una postura filosofica, non di una strategia per risanare un sistema corrotto.
Allegra MacLeod, giurista di Georgetown in prima linea nella causa, parla di una “etica abolizionista”, una concezione della giustizia che rovescia quella che ispira il sistema in vigore: “Mentre le forme convenzionali della giustizia mettono l’accento sull’amministrazione di giudizi individualizzati e di corrispondenti punizioni, la giustizia abolizionista offre un tentativo più solido di realizzare la giustizia, nel quale la punizione è abbandonata in favore della accountability e della riparazione”. Gli abolizionisti sono convinti che le attuali strutture legali aumentino il grado di ingiustizia nella società invece di diminuirlo.
Questa concezione si fonda su una critica all’idea della giustizia retributiva e alla visione antropologica sulla quale si innalza. La giustizia retributiva è imperniata sulla responsabilità dell’individuo di fronte alla legge: è la giustizia stessa a imporre che il criminale patisca, in modo proporzionato, per la colpa che ha commesso. Come ha scritto Kant nella Metafisica dei costumi: “La punizione giudiziaria non può mai essere usata soltanto come mezzo per promuovere qualche altro bene per il criminale stesso o per la società civile, ma deve in tutti i casi essere imposta su di lui soltanto sulla base del fatto che ha commesso un crimine”. Per realizzare la giustizia è dunque imperativo che il criminale, solo responsabile delle proprie azioni, venga punito. Gli abolizionisti rovesciano questo principio, sostenendo che in fondo sono le condizioni socio-economiche nel quale gli individui si trovano a generare i comportamenti criminali, dunque il sistema penale dovrebbe avere come obiettivo principale quello di correggere le circostanze che favoriscono il crimine.
Scavando nelle premesse implicite del discorso abolizionista, si scopre che la persona umana consiste principalmente nell’ambiente sociale al quale partecipa. Per questo gli esponenti di questa scuola preferiscono parlare di giustizia riparativa, dove l’accento cade sulla riparazione del danno inflitto agli altri e non sulla colpa morale di chi commette il crimine. Questa distinzione cruciale fa capire perché gli abolizionisti guardano con sospetto, se non con ostilità, gli avvocati di una semplice riforma del sistema carcerario, e viceversa.
Il dibattito che oggi è di moda fra giuristi e filosofi del diritto è in realtà il prodotto di almeno un secolo e mezzo di dispute e conflitti. A cavallo fra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno vissuto una stagione di riforme legali tese a smontare una concezione così sintetizzata dal giurista inglese William Blackstone: “Le punizioni sono inflitte soltanto per gli abusi di quel libero arbitrio che Dio ha dato all'uomo”. Il positivismo dilagante e le teorie di Charles Darwin, che si erano affermate nei decenni precedenti, imponevano di considerare l’uomo non come essere dotato di una libertà data da Dio – e della quale poteva abusare – ma come prodotto dei suoi antecedenti biologici, delle condizioni sociali, della lotta per la sopravvivenza, del caso. Le teorie giuridiche dovevano adeguarsi al nuovo paradigma scientifico, e questa convinzione ha fornito la base per quella che alcuni chiamano la “rivoluzione consequenzialista”, un processo che è andato avanti quasi indisturbato per buona parte del Ventesimo secolo. E’ stata però una rivoluzione incompiuta.
La concezione precedente, di stampo kantiano, è sopravvissuta nei gangli del sistema giuridico ed è stata poi riesumata negli ultimi decenni del Ventesimo secolo, quando la stretta in senso law and order promossa per motivi squisitamente politici tanto dai Repubblicani quanto dai Democratici ha avuto la necessità di far leva sulle teorie della giustizia retributiva e sulle premesse a essa sottese. La disputa sull’abolizione non è che un capitolo di un epocale scontro fra mondovisioni. Poiché oggi parlano apertamente di smantellare le prigioni, sembra che gli abolizionisti perseguano un programma eversivo e utopico. In realtà la loro intenzione è ancora più profonda: portare a compimento una rivoluzione filosofica lasciata a metà.
“Non sapevi che questi uomini sono all’inferno già qui?”
Dialogo fra il diavolo e un prete sull’infernale condizione umana, scritto sui muri della “casa dei morti”Salve, piccolo grasso padre!” disse il diavolo al prete. “Che cosa ti ha indotto a mentire a questa gente sviata e misera? Quali torture dell’inferno hai prospettato loro? Non sai che stanno già soffrendo le pene dell’inferno nella loro vita terrena? Non sai che tu e le autorità dello Stato siete i miei rappresentanti sulla terra? Sei tu che stai infliggendo loro i tormenti di quell’inferno con i quali li minacci. Non lo sai? Beh, allora vieni con me!”.
Il diavolo afferrò il prete per il bavero, lo sollevò da terra e lo portò in una fabbrica, davanti a una fucina. Vide lì gli operai correre e affrettarsi, arrancando nella calura. Ben presto l’aria fitta, pesante e il calore divennero insopportabili per il prete. Con le lacrime agli occhi, supplicò il diavolo: “Lasciami andare! Lasciami andare da questo inferno!”.
“Oh, caro amico mio, devo mostrarti ancora molti altri luoghi”.
Il diavolo lo afferrò di nuovo e lo trascinò in una fattoria. Lì vide dei contadini che mietevano il grano. La polvere e il calore erano intollerabili. I guardiani avevano delle fruste e colpivano senza pietà quelli che cadevano a terra sopraffatti dalla fatica o dalla fame. Poi il prete venne condotto nelle baracche dove quegli stessi contadini vivevano con le loro famiglie, dei buchi sporchi, freddi, nauseabondi e pieni di fumo.
Il diavolo sorrise. Indicò la povertà e le fatiche che erano di casa da quelle parti. “Dunque, non è abbastanza?” chiese. E parve che perfino lui, il diavolo, avesse compassione per quelle persone. Il devoto servo di Dio riusciva a stento a resistere. Con le mani levate, supplicò: “Lasciami andare via da qui. Sì, sì! Questo è l’inferno sulla terra!”.
“Hai capito, dunque. E lo stesso tu prometti loro un altro inferno. Li tormenti, li torturi a morte nella mente quando sono già morti, tranne che nel corpo. Vieni! Ti mostrerò un altro inferno, il peggiore”.
Lo portò in una prigione e gli mostrò un sotterraneo, con la sua aria putrida e molte forme umane, private della salute e del vigore, stese sul pavimento, con i vermi che divoravano i loro poveri corpi nudi e lividi. “Togliti i tuoi abiti di seta”, disse il diavolo al prete, “metti alle caviglie catene pesanti come quelle che indossano questi poveracci. Coricati sul pavimento sudicio, e poi racconta loro dell’inferno che ancora li attende!”.
“No, no!”, rispose il prete, “non riesco a pensare a niente di più tremendo di questo. Ti supplico, portami via da qui!”.
“Sì, questo è l’inferno. Non ci può essere un inferno peggiore di questo. Non lo sapevi? Non sapevi che questi uomini e queste donne che tu spaventi con le immagini di un inferno nell’aldilà sono già all’inferno qui, ancor prima di morire?”.
Fëdor Dostoevskij
la mappa dello spionaggio