Addio Borrelli, il magistrato che sognava il “governo dei migliori”
Durante la stagione di Mani pulite fu lui, ricorda Mattia Feltri, l'unico a rendere esplicita la “disponibilità” a guidare un esecutivo di supplenza e di servizio
La scomparsa di Francesco Saverio Borrelli induce inevitabilmente a una riflessione sulla stagione di Mani pulite, di cui il procuratore generale milanese fu il regista più autorevole. Borrelli non era un “rivoluzionario”, il suo stile era quello di un aristocratico che vedeva con una certa diffidenza i nuovi potentati economici e politici, che si affermavano nella fase conclusiva della prima repubblica. Era una specie di Montesquieu che si trova a diventare l’ispiratore dei Robespierre e dei Saint Just? Ne parlo con Mattia Feltri, giornalista della Stampa e autore di un bel libro sul “Novantatré. L’anno del terrore di Mani pulite”. Mi dice che se è vero che all’inizio Borrelli guardava Antonio Di Pietro con uno spirito da entomologo, quando poi le sue iniziative ebbero successo ne assunse la responsabilità con l’idea di dar loro uno sbocco politico. E’ stato Borrelli, mi ricorda Feltri, l’unico a rendere esplicita la “disponibilità” a guidare un governo di supplenza e di servizio, una volta che il Quirinale avesse preso atto della desertificazione del quadro politico a causa delle inchieste e della loro immensa popolarità. Fu sempre Borrelli a dire, prima dei verdetti, che il “giudizio pubblico” ormai c’era stato.
Dunque, par di capire, la differenza tra Borrelli e i suoi aggiunti sta nel fatto che Borrelli, aristocratico napoletano, erede di una dinastia di alti magistrati, si sente parte essenziale della classe dirigente, quella classe cui inevitabilmente, una volta distrutti per via giudiziaria gli “arrampicatori sociali” come Bettino Craxi (e più tardi Silvio Berlusconi) ci si dovrà rivolgere per restaurare lo Stato. Non si tratta solo di una differenza di stile e di classe, ma di una diversa concezione del proprio ruolo.
In effetti, però, la vicenda politica ha preso un’altra strada, pesantemente condizionata da Mani pulite, tanto che si può dire che tutte le convulsioni successive, fino al governo bi-populista di oggi ne sono una conseguenza più o meno diretta. Su questo convengo con Feltri, e non da oggi.
Però lo svolgimento concreto, i passaggi politici reali sono stati ben diversi, si può dire persino opposti a quelli vagheggiati da Borrelli. Ne è stato consapevole, al punto che nel 2011 si è, per così dire, scusato “per il disastro seguito a Mani pulite: non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale”. Probabilmente avrebbe confermato e forse inseverito questo stesso giudizio pensando alla situazione attuale.
Questa insoddisfazione quasi esistenziale per l’andamento politico ha indotto Borrelli, negli ultimi anni, a chiudersi in un dignitoso silenzio. Anche quando emergevano questioni che lo riguardavano personalmente non cercava rettifiche pubbliche. Feltri mi racconta che nel suo libro ha commesso una inesattezza, ha attribuito a Borrelli la frase: “Noi mettiamo in carcere gli indagati per farli confessare li scarceriamo quando hanno confessato”, mentre invece il testo originale cominciava con “non mettiamo in carcere…”. Borrelli ha mandato a Feltri una mail di rettifica, ma non ha chiesto che questa venisse in qualche modo resa pubblica. Voleva precisare ma non intervenire. Anche da questo piccolo episodio, soprattutto se paragonata all’ansia di protagonismo di tanti altri soggetti della vicenda nazionale immensamente meno rilevanti di Borrelli, si può apprezzare la sua statura intellettuale e il suo tratto umano.
Anche altri protagonisti di quella stagione, col tempo, hanno assunto atteggiamenti più meditati, da Gherardo Colombo che si batte contro le pene afflittive e chiede l’abolizione dell’ergastolo allo stesso Antonio Di Pietro che critica gli eccessi attuali del giustizialismo. “Adesso mi sono diventati simpatici” mi dice Feltri, che pure non ha esitato a criticarli quando sembravano ad altri i salvatori della Patria. Esclude dal novero dei riflessivi Piercamillo Davigo, che è ancora in trincea. A me pare che Davigo sia un po’ meno integrabile nella famiglia di Mani Pulite, che la sua forza stia invece in una piena adesione alla difesa della corporazione giudiziaria, che rende più stabile il suo ruolo, perché legato essenzialmente a un sistema di potere permanente e indipendente dalle fasi della rivoluzione giustizialista.
A distanza di anni mi pare di poter dire che la “rivoluzione” giustizialista di Mani Pulite è stata un’altra delle “rivoluzioni passive” di cui secondo un’intuizione di Antonio Gramsci, è disseminata la storia d’Italia. E’ stato distrutto un sistema dei partiti arrogante e autoreferenziale ma che affondava le sue radici in una relazione reale con basi organizzate e con grandi tradizioni culturali e civili, con la convinzione che il sistema politico fosse indegno di un sentire popolare che esigeva giustizia. Poi si è visto che non era così, che un paese ha sempre il governo che si merita, che l’esaltazione di una “società civile” che scavalca quella politica è un’illusione, quando va bene, uno strumento di manipolazione populista quando va male. Borrelli, che sognava di restaurare un governo dei migliori, secondo la definizione aristotelica dell’aristocrazia, apparteneva alla prima categoria, il che spinge a rivalutare la sua figura umana, la sua cultura non raffazzonata, l’amore per la musica non superficiale, insomma la serietà. Il che in un mondo poco serio non è poco.
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