Cosa cambia nel processo sulla Trattativa dopo l'assoluzione di Mannino
Secondo la Corte di appello di Palermo non ci sono prove contro l'ex ministro Dc. Così viene meno il tassello iniziale, l'incipit che vedeva nel politico democristiano l'uomo che diede avvio al “patto sporco” tra Stato e mafia
Per fare i processi e, per vincerli, alla pubblica accusa servono le prove. E contro Calogero Mannino le prove non c'erano. Strano, ma vero. L'ex ministro democristiano non ha trattato con la mafia. O meglio, codice alla mano, non ha minacciato un corpo politico dello Stato. Questo era il reato che gli veniva contestato. E ora ci si trova di fronte a due sentenze che fanno a pugni. Sono le montagne russe della giustizia.
“Non ha commesso il fatto”, dicono ora i giudici della Corte di appello di Palermo. La trattativa Stato-mafia perde, ancora una volta, il tassello iniziale, l'incipit che vedeva in Mannino l'uomo che diede avvio al patto sporco. Temendo che la mafia lo volesse morto il politico democristiano avrebbe chiesto aiuto agli “amici del Ros”. E cioè Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno.
Nel troncone principale del processo, quello chiuso in primo grado con condanne pesantissime inflitte agli ufficiali dell'Arma e ai mafiosi, la Corte d'assise presieduta da Alfredo Montalto ha criticato l'operato di Mannino: “Ben consapevole della vendetta che Cosa nostra poteva attuare anche nei suoi confronti per non essere riuscito a garantire l'esito del maxi processo a favore dei mafiosi non si rivolge a coloro che avrebbero potuto rafforzare la protezione”. Ed invece scelse di chiedere aiuto ad alcuni “amici dell'Arma e tra questi al generale Subranni”, suo conterraneo.
Senza la richiesta di aiuto di Mannino e il peso del suo partito, la Democrazia cristiana, lo Stato non avrebbe mostrato, così ha sostenuto l'accusa, il primo segno di debolezza di fronte alla tracotanza dei boss: la sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino al ministero dell'Interno. Avvenne a giugno, quando Giovanni Falcone era già morto. Totò Riina capì che lo Stato aveva paura. Si passava dalla “furia vendicatrice” dei corleonesi alla strategia della Trattativa.
La condanna di Mori e degli ufficiali è successiva all'assoluzione di primo grado di Mannino, quella che oggi viene confermata. I giudici della Corte di appello hanno ribadito che “il fatto non sussiste”, in linea con quanto era stato deciso in primo grado dal gup Marina Petruzzella. E cioè quel giudice, secondo cui, nel “mosaico accusatorio sulla complessa ipotesi della trattativa Stato-mafia le condotte attribuite all'imputato Mannino non assumono adeguata validità probatoria”.
L'esistenza della Trattativa è stata il postulato che ha reso marce a priori le azioni di Mannino. E invece, scriveva Petruzzella, ci sono “interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal pm”.
I giudici di appello non si sono fermati alla lettura delle carte processuali del primo grado, hanno pure riaperto l'istruttoria dibattimentale per scandagliare ogni dubbio e aspetto irrisolto. L'esito non è cambiato.
E adesso attenderanno le motivazioni per capire se e come superare il contrasto fra due giudizi. Come andare oltre l'aporia dell'assoluzione di chi, secondo la logica colpevolista, diede avvio al patto sporco. Magari verrà fuori che Mannino chiese “solo” un aiutino ai carabinieri. Un peccatuccio di fronte alle nefandezze degli uomini in divisa. Una sfumatura. Non la sola, per la verità. C'erano già state, infatti, le assoluzioni, queste già definitive, di Mario Mori per la mancata perquisizioni del covo di Riina prima e per il mancato arresto di Provenzano poi nonostante l'accusa le ritenesse tappe del patto illecito.
Nel frattempo lo Stato che ha processato se stesso ci ha messo sei anni per mandare assolto Mannino. E dire che il suo processo sulla carta doveva essere abbreviato.