La grande guerra alla presunzione d'innocenza
I giuristi americani discutono se spostare l'onere della prova all'imputato, capitalizzando gli istinti accusatori che legano le università e il MeToo
Una decina di giorni fa l’American Bar Association (Aba), la più importante associazione americana di avvocati e giuristi, ha bocciato una proposta di riforma dell’orientamento dell’ente sul tema del “consenso affermativo”, il principio per cui il consenso a un rapporto sessuale deve essere positivamente affermato da tutti i partecipanti all’atto, confermando senza equivoci e a ogni stadio della vicenda il permesso di passare dal bacio ai preliminari, dai preliminari al dunque. Considerando anche tutti i complicati stadi intermedi che si possono immaginare. La mozione, presentata dalla commissione interna sulla violenza sessuale e domestica, diceva: “L’Aba chiede ai poteri locali e ai tribunali di definire il consenso, nei casi di abuso sessuale, come l’assenso di una persona che ha la competenza per esprimere il consenso, di partecipare a uno specifico atto di penetrazione sessuale, sesso orale, contatto sessuale; di accertarsi che il consenso sia espresso in parole o azioni nel contesto di tutte le circostanze, e di rifiutare la posizione secondo cui le vittime di abusi sessuali avrebbero l’onere legale della resistenza verbale o fisica”.
Tradotto dall’avvocatese, significa che ogni atto sessuale deve essere autorizzato verbalmente prima e pure durante il suo svolgimento, e l’assenza di un “no” o di una chiara opposizione espressa fisicamente non equivale a un permesso. Tutti gli atti sessuali che vengono consumati senza il previo passaggio di questo rigoroso standard sono da considerarsi abusi, in ossequio alla logica imposta su scala globale dal MeToo e poi finita sotto la lente critica anche di alcuni suoi esponenti, persuasi che il passaggio dall’arresto di un Weinstein alla criminalizzazione generalizzata del maschio sessualmente attivo sia stato fin troppo breve. Con gli attivisti confusi e alquanto divisi sul da farsi, una frangia di giuristi si è intestata il ruolo di avamposto della giustizia sessuale, e il tentativo di riforma, per il momento naufragato, delle linee guida dell’associazione degli avvocati americana è un passaggio rilevante, anche perché un esisto in senso opposto avrebbe imposto alla lobby giuridica di fare pressione su tutti gli organi giudiziari d’America per conformarsi alla sua linea. La questione, tuttavia, non si limita alla disciplina delle indisciplinabili faccende che avvengono sotto le lenzuola, ma riguarda il passaggio rivoluzionario dalla presunzione d’innocenza alla presunzione di colpevolezza. Nella visione dei sostenitori della riforma, l’onere della prova del reato si sposta dalle presunte vittime agli accusati, che vengono di fatto considerati colpevoli finché non riescono a dimostrare di avere ottenuto dal partner sessuale un consenso chiaro, esplicito, inequivocabile.
La mozione è stata rifiutata con 256 voti contrari e 165 favorevoli all’assemblea plenaria, al termine di un dibattito serratissimo che ha visto schierarsi tutte le maggiori associazioni di giuristi, fra cui la National Association of Criminal Defense Lawyers e l’American Law Institute, entrambe opposte alla riforma sulla base del fatto che viola le garanzie del due process e sdogana la presunzione di colpevolezza. Il risultato è comunque significativo: lascia intendere che, come indicano i suoi sostenitori, la battaglia è persa ma la guerra è ancora aperta. Anzi, è solo questione di tempo, ché lo spirito del tempo soffia nelle vele di un cambio di paradigma in senso colpevolista, e i vecchi istituti di garanzia vanno corretti con un impianto inquisitorio che aumenti la protezione delle vittime. Nell’epoca della vittimizzazione come via maestra per l’affermazione dell’identità, il giusto processo è un ostacolo da minimizzare e infine rimuovere.
Furibondo per la sconfitta, l’avvocato Mark Schickman, capo della commissione che ha proposto l’emendamento, ha detto che le argomentazioni degli avversari si poggiano su “assunti vecchi di centinaia di anni secondo cui il sesso è qualcosa di cui si può disporre liberamente”, e ha accusato gli oppositori di abbracciare “una concezione secondo cui le donne sono spoglie di guerra, lo stupro di una donna è un danno alla proprietà del marito, se è sposata, e a quella del padre se non lo è”. Schickman sostiene che “alcune giurisdizioni proteggono ancora le relazioni sessuali imposte in assenza di prove di un’attiva resistenza” da parte della vittima.
La soluzione proposta, che altererebbe l’idea per cui un accusato è innocente finché la colpa non viene dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, è ricalcata sullo schema già ampiamente adottato nella gran parte delle università americane per regolare internamente gli abusi sessuali. Negli ultimi decenni i campus hanno approvato linee guida per il giudizio degli abusi in contrasto con la giurisprudenza civile e penale: lo standard è quello della “preponderanza delle prove” a carico dell’imputato, cosa che mette le vittima in una posizione di forza. Questo ha creato uno squilibrio notevole: la stragrande maggioranza degli studenti cacciati dalle università per abusi mai dimostrati, poi è stato assolto in tribunale. L’Amministrazione Obama ha benedetto l’approccio delle università con una famosa circolare del segretario per l’educazione, e lo standard del “consenso affermativo”, in tensione con il principio della presunzione di innocenza, è stato in parte recepito negli ordinamenti di stati come la California e il Wisconsin. L’Amministrazione Trump ha annullato quella disposizione, ma il treno era già in corsa. Per la verità era in corsa da un pezzo, dato che nelle università si ragionava già dai primi anni Novanta sugli standard per stabilire la colpevolezza in materia sessuale, nell’ottica di certificare che il maschio è un colpevole predatore e i rapporti – tutti – sono molestie dalle quali il molestatore è chiamato a discolparsi.
Il college di Antioch, in Ohio, una specie di laboratorio del progressismo sessual-giuridico, è stato il primo a introdurre, nel 1991, una nuova linea di giudizio sugli abusi sessuali che metteva in crisi la presunzione di innocenza, e allora anche il New York Times sbertucciava un eccesso ideologico che minava un pilastro dello stato diritto. Nei venticinque anni successivi le università si sono largamente adeguate a quei criteri, celebrati dai giornali, e molti giuristi vorrebbero applicarli anche alla giustizia ordinaria. Oggi ad Antioch il protocollo interno impone di chiedere il consenso affermativo anche per una stretta di mano e un abbraccio, segno che ogni relazione fisica, anche quelle che non sono caricate di una valenza sessuale, sono viste con sospetto e vanno strettamente regolamentate. Il dibattito fra giuristi è figlio di una concezione disposta a sacrificare le garanzie processuali per generare un cambiamento sociale in senso progressista. In una email inviata dopo la sconfitta, Schickman ha criticato una delle associazioni che ha avversato la mozione, dicendo: “Non siamo d’accordo con la loro visione secondo cui ‘la legge non è un veicolo per cambiare i costumi sociali’. Noi pensiamo che invece lo sia”. La presunzione di innocenza è un istituto sacrificabile nel nome di un nuovo progetto sociale.