Diego Sozzani (Foto LaPresse)

Manette no, grazie

Valerio Valentini

Il voto segreto per l’arresto di Sozzani (FI) divide in Aula Pd e M5s. Polemiche poche, esultano tutti

Roma. Il responso dell’Aula ha voluto attenderlo da solo, col cellulare in mano pronto a verificare le agenzie. E sì che i colleghi di Forza Italia, e Giorgio Mulè su tutti, si erano pure raccomandati: “Non intervenire, ché sennò ti emozioni”. E lui, guascone, di rimando: “Ma mi ci vedi che mi metto a piangere, alla mia età?”. Solo che poi si sa come vanno certe cose: e infatti Diego Sozzani, di anni 58, ha concluso il suo intervento con un singulto di pianto incipiente, e ha poi subito lasciato l’Emiciclo, scivolando lungo le scale fino all’entrata posteriore di Montecitorio. Ed è lì che ha atteso di conoscere il suo destino, squadernatogli da una telefonata di un amico deputato. “Vittoria”, ha esultato poi, con l’urlo spezzato dalla commozione. Ma non si riferiva all’esito della votazione. “Vittoria, la mia figlia grande così”, dice, e tende il palmo della mano all’altezza della cintola. “Quello che più mi ha distrutto, in questi mesi, è stato vedere le ripercussioni della vicenda sulla mia famiglia”. Storiaccia complicata di presunti finanziamenti illeciti, secondo la Procura di Milano: un pasticcio di intercettazioni via trojan e 10 mila euro incassati, parrebbe, per sostenere la sua vittoriosa campagna elettorale del 4 marzo, ma che l’ex consigliere regionale piemontese promosso alla Camera avrebbe spacciato per altro. Ci sarà tempo per fare chiarezza. “Ma quello che conta è che ora potrò difendermi da uomo libero, senza l’ingiusta onta dei domiciliari”, confessa Sozzani.

 

E lo dice mentre risale le scale, richiamato dai suoi colleghi che lo attendono in Transatlantico per felicitarsi con lui, e proprio in quel mentre incrocia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, scuro in volto, che lascia il palazzo senza proferire parola. “Ora ti tocca andare al santuario d’Oropa a piedi”, lo saluta Maurizio Lupi: che, come tanti altri, in nome del garantismo e insieme dell’amicizia personale, si sono attivati in un’opera di moral suasion sin dal mattino. E non a caso a ora di pranzo, Matilde Siracusano (che alla esulterà: “Abbiamo ristabilito un po’ di civiltà in questo Parlamento”) provava a convincere il concittadino Andrea Giarrizzo, grillino. “Suvvia, come potete votare a favore dell’arresto?”. E sembrava sul punto di risultare convincente, se non fosse che proprio in quel momento arrivava Eugenio Saitta, catanese del M5s, con la sua requisitoria, a smontare l’arringa difensiva della deputata azzurra. E tutto però restava fluido, indefinito. Perché in mattinata il Pd aveva riunito il suo gruppo, per fare chiarezza. L’indicazione data da Graziano Delrio era stata chiara: “Si vota a favore dell’autorizzazione a procedere, insieme al M5s”. E però subito i malumori erano deflagrati. Gli esuli renziani, nell’attesa di formare il nuovo gruppo, schiarivano subito: “Votiamo contro”. Enza Bruno Bossio, che renziana è pure lei, ma rimasta nella truppa del Nazareno, esprimeva il suo dissenso. “Noi siamo un’altra cosa, rispetto al M5s”. Altri, invece, il proprio malcontento lo esternavano in modo più silente. E così Piero De Luca chiedeva lumi all’amico penalista Carmelo Miceli, lottiano come lui, e la risposta era categorica: “In dubio, pro reo”.

 

Quel “reo” a cui Mulè, che per tutta la giornata ha tenuto il pallottoliere di Montecitorio, di tanto in tanto tornava a riferire: “Una ventina del Pd voteranno contro, qualcuno non parteciperà, anche tra i grillini cinque o sei in dissenso dal gruppo”. Francesco D’Uva, il capogruppo del M5s, scuoteva il capo: “Noi siamo compatti. Ci tirano in mezzo a questi giochini per infangarci, ma noi di queste macchinazioni non saremmo neanche capaci”. Sicuro per la votazione? “Certo. Anche se ora sta parlando quello là, che di solito porta sfortuna”, diceva D’Uva, e ammiccava al monitor dove compariva la faccia di Catello Vitiello, eletto col M5s e poi subito espulso perché in odore di massoneria, ora in transito verso “Italia Viva”, che già il 21 novembre scorso, con un emendamento sul peculato, era riuscito a spaccare l’allora solidissima maggioranza gialloverde.

 

Perché alla fine è sempre sulla giustizia, che il M5s mostra il suo volto più settario e oltranzista. E anche stavolta, come allora, resta isolato, forse perfino per scelta. “Noi non torniamo indietro, ho tanta voglia di lavorare sulla mia riforma”, conferma in Transatlantico Bonafede, dando mostra di non volere affatto recedere dai propositi scellerati sulla prescrizione. Su questi temi, il M5s ritrova il suo orgoglio scriteriato. Il ministro per i Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, in mattinata aveva raccomandato la massima presenza degli esponenti del governo, solo che nessuno si era premurato di trovare una via condivisa. E infatti sul voto palese, quello sull’autorizzazione all’uso delle intercettazioni contro Sozzani, la maggioranza rousseaugialla s’era sfarinata: il Pd contro, il M5s a favore, coi ministri grillini – compreso Luigi Di Maio – seduti tra i banchi del governo. E gli esponenti dei due schieramenti a guardarsi basiti, tra loro. Subito dopo, il voto decisivo, sugli arresti, a scrutinio segreto. Un plebiscito a favore di Sozzani: 309 contro 235. La maggioranza che, a conti fatti, perde oltre 80 voti (senza contare gli assenti) rispetto alla fiducia data al governo Conte II. Il M5s resta solo. “Sconfitta? Ma quale sconfitta, noi questo nostro isolamento possiamo rivendercelo coi nostri elettori come un vanto”, dice a fine giornata Andrea Colletti, “orgogliosamente giustizialista”, cantando “vittoria”. La stessa parola che risuona, ma con altro valore, sulle labbra di Sozzani.