La Cedu, l'ergastolo ostativo e la funzione rieducativa della pena
Perché chi difende la Costituzione ha il dovere di essere dalla parte di chi vuole rivedere il carcere a vita
Roma. Nino Di Matteo, pubblico ministero della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, è sconcertato e lo dice al Fatto quotidiano: “L’unica vera preoccupazione per i mafiosi è l’ergastolo, inteso come effettiva reclusione senza alcuna possibilità di accedere ai benefici”. Stessa linea di Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, che è preoccupatissimo e lo dichiara alle agenzie, e Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, che è allarmato e lo racconta su Facebook. Insomma, tutto il meglio del giustizialismo all’italiana mette in guardia la fragile pubblica opinione: l’eventuale eliminazione dell’ergastolo ostativo per decisione della Cedu, la Corte europea per i diritti umani che ieri ha riunito la camera di consiglio, dice Di Matteo, aumenta il rischio “che i capimafia ergastolani continuino a comandare” e “sarebbe un segnale di possibile riaffermazione anche simbolica del loro potere”. C’è di più, dicono i Di Matteo, i Bonafede e i Morra, pronti a contestare la decisione della Cedu sul ricorso presentato dal governo: così uscirebbero dal carcere decine e decine di mafiosi. In realtà, niente di tutto questo è vero. Ma procediamo con ordine. Anzitutto, bisogna spiegare che il carcere ostativo è il risultato della riforma legislativa introdotta dalla legge numero 356 del 7 agosto 1992, che si fonda sulla lettura combinata dell’articolo 22 del Codice penale e degli articoli 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario. Secondo queste disposizioni, l’assenza di “collaborazione con la giustizia” impedisce la concessione della liberazione condizionale e degli altri altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, come la semilibertà. “Questo vuol dire – dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto, che ha presentato un intervento di terza parte nel procedimento Viola contro Italia, all’origine della questione, nel giugno scorso – costringere le persone a collaborare con la giustizia per avere la riduzione della pena dell’ergastolo”.
“E ciò talvolta può essere fonte di criticità. Si pensi a chi è accusato e condannato per reati di mafia. Collaborando con la giustizia, rischia di esporre la famiglia a un rischio notevole, perché i clan mafiosi potrebbero vendicarsi. Noi l’abbiamo chiamato nel nostro intervento di terza parte ‘una scelta di Sofia’ rifacendoci all’omonimo film con Meryl Streep in cui l’attrice americana interpreta una donna ebrea in un campo di concentramento, alla quale viene chiesto dal suo aguzzino, un gerarca nazista, di scegliere chi salvare fra i suoi due figli. Ma questa è appunto una scelta impossibile. E così l’ordinamento non può obbligare a scegliere tra la possibilità di accesso alle misure alternative e alla riducibilità dell’ergastolo e l’esposizione della propria famiglia a un pericolo molto grave”.
All’origine del caso c’è, appunto, un ricorso proposto contro la Repubblica italiana da Marcello Viola, detenuto nel carcere di Sulmona perché coinvolto negli avvenimenti che videro opporsi la cosca Radicena e la cosca Iatrinoli, a partire da metà degli anni 80 fino all’ottobre del 1996. Viola nel ricorso ha lamentato di essere sottoposto a una pena detentiva a vita incomprimibile, che qualifica come inumana e degradante. A giugno la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Il governo, dunque, ha deciso di opporsi e per questo la Cedu si è dovuta pronunciare, aprendo il vaso di Pandora del giustizialismo italiano, subito pronto a fare terrorismo psicologico.
La questione è, poi, di stretta lettura costituzionale; se è vero che il nostro articolo 27 comma 3 prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del reo, allora questa o questo deve essere posto nella condizione, con il proprio comportamento, di partecipare all’opera rieducativa in fase di esecuzione della pena. “Insomma, l’articolo 3 della Cedu e il rispetto del principio di dignità, letto in combinato con il nostro articolo 27 comma 3, ci impongono di riconoscere il diritto di autodeterminarsi alle persone detenute e anche agli ergastolani: ossia di incidere con le azioni sul proprio futuro. Solo così la vita, come abbiamo scritto nel nostro intervento alla Cedu, è dotata di autonomia e quindi di senso”, dice Ciuffoletti. Che i difensori della Costituzione se ne dimentichino proprio quando c’è chi dice che la Costituzione va rispettata è quantomeno surreale.