Altro che “bomba atomica” la riforma Bonafede sulla prescrizione è inutile
L'Unione delle Camere Penali Italiane sciopera contro il testo che entrerà in vigore a gennaio 2020: interessa solo il 25 per cento dei processi e, in ogni caso, gli attuali termini per i reati più gravi sono sufficienti
Oggi è iniziata la settimana di agitazione indetta dall’Unione delle Camere Penali Italiane (Ucpi) per protestare contro l’entrata in vigore, prevista il 1 gennaio 2020, della riforma Bonafede che abroga di fatto la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione, trasformando i processi in persecuzioni a vita. I penalisti hanno voluto inaugurare la settimana di sciopero con un’operazione verità, presentando in conferenza stampa a Roma i dati sui termini attuali di prescrizione. La domanda di partenza è molto semplice: la riforma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, che l’ex ministra per la Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno definì “bomba atomica” per i suoi effetti sul processo penale, è veramente necessaria?
A guardare i numeri la risposta è nettamente negativa. Innanzitutto, secondo le statistiche dello stesso ministero della Giustizia, il 75 per cento delle prescrizione matura durante le fasi delle indagini preliminari (53 per cento) e del procedimento di primo grado (22 per cento). Ciò vuol dire che, intervenendo dopo una sentenza di primo grado, la riforma Bonafede non si applicherebbe al 75 per cento dei casi di procedimenti che finiscono in prescrizione, ma solo al restante 25 per cento.
Già questo dato basterebbe a bollare come mera propaganda la riforma varata dal governo M5s-Lega. Ma ammettiamo pure che interrompere il decorso della prescrizione di migliaia di processi per risolvere soltanto il 25 per cento del problema abbia un senso e chiediamoci: gli attuali termini di prescrizione non sono sufficienti? Anche qui la risposta è negativa.
Sono i dati forniti dall’Ucpi a chiarire il quadro, ricordando i lunghissimi termini di prescrizione attualmente in vigore per i reati più gravi e di maggiore allarme sociale: sequestro di persona a scopo di estorsione 60 anni, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti 40 anni, associazione per agevolare l’immigrazione clandestina 30 anni, associazione di tipo mafioso 30 anni, voto di scambio politico-mafioso 24 anni, morte o lesioni come conseguenza di inquinamento ambientale 50 anni, omicidio stradale 45 anni, violenza sessuale 30 anni, maltrattamenti contro familiari e conviventi 17 anni e 6 mesi (elevati a 37 anni e 6 mesi se dal fatto deriva una lesione gravissima, e a 60 anni se dal fatto deriva la morte), atti sessuali con minorenne 60 anni, violenza sessuale di gruppo 35 anni, rapina 25 anni, produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti 25 anni, estorsione 25 anni.
Anche i cosiddetti “reati da colletti bianchi” oggi prevedono termini di prescrizione lunghissimi: corruzione in atti giudiziari 30 anni, induzione indebita a dare o promettere utilità 15 anni e 9 mesi, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio 15 anni, corruzione per l’esercizio della funzione 12 anni, bancarotta fraudolenta 18 anni e 9 mesi, concussione 15 anni, peculato 12 anni e 7 mesi, falso in atti pubblici 12 anni e 6 mesi. Secondo i sostenitori della riforma Bonafede, veramente 15, 25 o addirittura 60 anni non dovrebbero bastare in Italia per portare a termine un’indagine e un processo? Ed è pensabile sostituire queste soglie altissime con un termine indeterminato, che consentirà allo Stato di perseguire un imputato in teoria persino per 100 anni? Potrebbe definirsi giustizia quella?
Piuttosto che ricorrere alla “bomba atomica” dell’abolizione della prescrizione, per trovare una soluzione ai procedimenti che finiscono in prescrizione il legislatore potrebbe dare uno sguardo ai dati che riguardano la diversa durata media dei procedimenti penali negli uffici giudiziari sparsi per il Paese: nelle procure si va dai 161 giorni di Trento ai 663 giorni di Brescia, in tribunale (collegiale) si va dai 339 giorni di Genova e 339 di Brescia ai 943 giorni di Perugia, 1.036 di Salerno e 1.232 di Potenza. Profonde asimmetrie anche nelle corti d’appello, se si considera che a Roma, Napoli e Torino matura quasi il 45 per cento delle prescrizioni totali in Italia. Per risolvere il problema della prescrizione occorre una migliore organizzazione degli uffici giudiziari, non una “bomba atomica”.