Il trucco di scena di Mafia Capitale
La Cassazione ha ricusato un metodo: quello di gonfiare i processi per ingolosire i talk show
Come archiviare mafia capitale, l’accusa con la quale la procura di Giuseppe Pignatone voleva rivoluzionare il processo ai traffichini e ai delinquenti della mala romana? Come archiviare quell’architettura costruita dai pubblici ministeri per dire che la violenza di boss e picciotti non era più una prerogativa della Sicilia ma un fenomeno di rilievo nazionale? Il primo istinto sarebbe quello di classificare la sentenza pronunciata ieri sera dalla Corte di Cassazione come la pura e semplice cancellazione di un’ipotesi accusatoria. Invece è la ricusazione di un metodo. La Suprema Corte comincia finalmente a capire che l’aggravante mafiosa è diventata da qualche anno a questa parte la sceneggiatura necessaria senza la quale nessun processo finisce sui giornali.
E’ la via più breve sperimentata dai cosiddetti magistrati coraggiosi per inserire la propria inchiesta, anche la più pallida o la più fragile, nei più alti gironi del circo mediatico giudiziario. E’ la vocazione al cinematografo. E’ il trucco di scena per trasformare un confronto – che altrimenti sarebbe risultato fiacco e sconclusionato – in uno scontro titanico tra accusa e difesa, in un’epopea in cui le forze del bene sono lì, a rischiare la vita, per sconfiggere le forze del male. E i giudici – diciamolo – molto spesso ci cascano. E finiscono, soprattutto nelle sentenze di primo grado, per accettare qualsiasi forzatura, per assegnare nobiltà di prova ai sospetti più azzardati, ai ragionamenti più strampalati, alle dicerie più improbabili, alle boiate pazzesche. Come la fantomatica Trattativa inventata dall’antimafia chiodata di Palermo per far credere, all’Italia dei talk-show, che il generale Mario Mori, il carabiniere che aveva catturato il Totò Riina, capo dei sanguinari corleonesi, era stato un ufficiale infingardo e fellone; al quale lo Stato, che avrebbe dovuto assegnargli una medaglia d’oro, ha inflitto invece l’infamia di una condanna a dodici anni di carcere per un traccheggio sottobanco con i boss. Ma la Corte d’Assise, in primo grado, non ha trovato di meglio che accettare quella sceneggiatura, tanto propagandata da giornali e televisioni. Del resto, perché rischiare? Chi avrà mai il coraggio di contrastare le forze del bene che rischiano la vita per combattere il male? Ci penserà, semmai, la Cassazione. Che, per Mafia Capitale, ci ha già pensato.