Contro il ricatto della nuova antimafia
Politica, giornali, sindaci. La sentenza su Mafia Capitale è uno schiaffo che va al di là del caso romano e che colpisce tutti coloro che hanno trasformato la lotta farlocca contro la mafia in uno strumento utile a ingrossare la bolla mortale del circo mediatico. Indagine
La bombastica sentenza con cui due giorni fa la Corte di cassazione ha demolito l’impianto accusatorio del processo di Mafia Capitale, cancellando l’aggravante mafiosa per diciassette imputati, offre agli osservatori molti spunti di riflessione, tutti utili a mettere a fuoco una patologia del sistema giudiziario italiano che da anni produce effetti devastanti in molteplici campi del nostro paese: la formazione dell’opinione pubblica, la tenuta dello stato di diritto, la traiettoria della legislazione, lo stato del giornalismo e la salute della nostra classe dirigente.
La grave patologia di cui parliamo è quella che molti anni fa, nel 1990, Giovanni Falcone definì la tentazione di “parlare di mafia in termini onnicomprensivi affastellando fenomeni che con la mafia hanno poco o nulla da spartire” e da un certo punto di vista possiamo dire che la sentenza della Corte di cassazione è come se fosse una luce improvvisa proiettata negli occhi di tutti coloro che ogni giorno tentano di trasformare l’antimafia in un passepartout utile ad aprire le porte del paradiso. In questo senso, la sentenza della Cassazione non costituisce solo una lezione di realismo a tutti coloro – magistrati, giornalisti, scrittori, sceneggiatori, conduttori, direttori – che hanno tentato di utilizzare la mafiosità per rendere appetibile un’indagine che senza mafiosità non avrebbe mai conquistato le prime pagine dei giornali – la corruzione a Roma esiste dai tempi di Cicerone, più o meno da duemila anni – ma costituisce una lezione interessante per tutti coloro che utilizzano ogni giorno il ricatto ideologico della mafia per costruire strumentali emergenze fittizie. E se la sentenza è come una luce che illumina il volto degli sciacalli è sufficiente guardare chi è rimasto accecato dalla sentenza per riconoscere le varie forme di sciacallaggio dell’antimafia.
Il primo profilo che viene in mente è quello del giustizialista collettivo che in cinque anni di indagini ha periodicamente trasformato ogni critica all’inchiesta in un tentativo occulto di prendere le parti dei presunti mafiosi.
Il secondo profilo che viene in mente è quello del pappagallo delle procure che in cinque anni di indagini non si è mai preoccupato di chiedersi se la chiave della mafiosità non fosse un semplice bignè utile a rendere appetibile un’inchiesta altrimenti poco appetibile.
Il terzo profilo che viene in mente è quello dei politici che hanno costruito la propria carriera anticasta sul falso mito della Roma devastata dalla mafia e che oggi si ritrovano nella complicata posizione di chi deve ammettere che le emergenze della Capitale d’Italia non hanno a che fare con un indomabile male che viene da lontano ma con una palese incapacità che viene dal presente.
Il quarto profilo che viene in mente è quello del politico furbacchione, per non dire di peggio, che ha scelto di trasformare la lotta farlocca contro la mafia in un semplice strumento utile ad alimentare il mostro del processo mediatico. Il codice del processo mediatico, si sa, prevede che l’unica fase del processo degna di essere presa in considerazione è quella precedente al processo, in cui gli indizi diventano condanne e in cui le accuse diventano sentenze, e proprio per rispondere a questa logica da anni la classe politica italiana tende ad adattare la legislazione alla legge della gogna.
Succede così che la lotta alla corruzione viene equiparata alla lotta contro la mafia. Succede così che i reati contro la Pubblica amministrazione vengono equiparati ai reati che rientrano nell’ambito della legislazione antimafia. Succede così che gli strumenti invasivi ideati per rispondere all’emergenza della mafia vengano applicati per ragioni propagandistiche a reati che con la mafia non c’entrano nulla. Succede così che la politica consideri naturale utilizzare misure interdittive pensate per ridurre la libertà degli indagati in situazioni straordinarie anche per situazioni del tutto ordinarie. Succede così che la lotta alla mafia diventa per alcuni magistrati un canale di accesso privilegiato per fare carriera anche al di là del singolo ambito giudiziario. Succede così che autoproclamati professionisti dell’antimafia diventino santoni criticabili solo da coloro che sono disposti a correre il rischio di essere considerati amici dei mafiosi in quanto ostili ai professionisti dell’antimafia. Succede così che il potere dell’antimafia chiodata diventi talmente assoluto al punto da mettere a rischio la vita non solo delle imprese che si trovano ostaggio della cultura del sospetto ma anche degli imprenditori che si trovano ormai da tempo ostaggio della dittatura del codice antimafia – chiedere per credere a un imprenditore siciliano di nome Rocco Greco che, dopo essere stato accusato dai suoi estorsori di avere rapporti con la mafia, pochi mesi fa si è sparato un colpo di pistola alla testa subito dopo aver ricevuto un’interdittiva antimafia.
Per fare un processo, sosteneva sempre Giovanni Falcone, mito dell’antimafia meno citato dai nuovi professionisti antimafia, ci vuole altro che sospetti, bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie e bisogna sempre ricordare che la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità ma è l’anticamera del khomeinismo. Chissà che la luce improvvisa proiettata dalla sentenza della Consulta non aiuti ad aprire gli occhi a tutti coloro che fuori dalle procure tentano ogni giorno di trasformare la lotta contro la mafia in uno strumento propagandistico utile solo a ingrossare la bolla mortale del circo mediatico.