Il bluff di Mafia Capitale è una lezione per la politica e anche per il giornalismo
Che il giornalismo celebri i suoi dèi, va bene, le fregnacce, questo va meno bene. Non avevamo prove, a parte la realtà
Non sono qui per incassare, avere ragione è una cosa che può succedere ma è anche molto cheap, di cattivo gusto. Mafia Capitale non è stata una tragedia della giustizia, o non solo, la giustizia ha fatto il suo corso, che ora è finito, e auguri al Cecato e a Buzzi che si stanno facendo e si faranno la galera che meritano, ma solo quella, come accade nei paesi civili governati dallo stato di diritto e non dalla gogna. Sono qui per fare un piccolo inutile discorso sul giornalismo e sulla politica, che mi stanno più a cuore della giustizia, nel senso che forse si potrebbero migliorare un poco, perché in sé valgono poco ma sono indispensabili, la giustizia è talmente necessaria e preziosa e inafferrabile che mi sembra difficile migliorarla, nonostante la sentenza perfetta della Cassazione.
Sono dunque qui per dire che “la mafia dei cravattari” (gergale romanesco per usurai) era un titolo acconcio per testi istintivi, scritti di getto e senza prove (quelle toccano all’accusa penale e vanno come si dice dibattute in giudizio), arrivati spericolatamente subito dopo la grande e fatale notizia: Roma è in preda alla mafia, sulla quale la bambolina è stata eletta sindaca con il sessanta per cento e passa e il bambolino ha poi preso il 32 per cento alle politiche, pura fiction. Quei testi sconsiderati sono stati condivisi da un gruppo di foglianti da combattimento e da Massimo Bordin: stop. Io poi me ne sono andato, perché credevo che dopo vent’anni, a sessant’anni, uno dovesse imparare a morire, e per adesso ho solo imparato la fiction di Mancuso e di Netflix, e mi sento più libero senza responsabilità, ai comandi di Claudio che la mafia a Roma, quella vera, la combatte meglio di come avrei mai potuto fare io, e scrivo di Salvini e del Greco e dei Monty Python con una certa allegrezza, trasportandomi di città in città un peso veramente enorme, il mio e solo il mio.
Ne ricavo generose soddisfazioni minime, per questo non sento bisogno di celebrarmi, non ho mai ambito alle vette teologiche di Travaglio, di Eugenio e di Montanelli che del giornalismo sono la storia, io il fumetto.
La vignetta di oggi (ieri per chi legge) però è amaramente divertente. Su Repubblica i titoli sono questi: che i condannati brindano perché assolti dall’accusa di mafia, cosa curiosa visto che sono stati sciolti da quel pendaglio da forca, direi inspiegabile; che la mafia è una parola tabù, cosa curiosa visto che della parola si è fatto uno spreco a tutta pagina dal 2014 a Roma, prima che una corte importante chiudesse l’altro ieri una stagione, che però continua con le buche e la spazzatura e il resto (basta la parola, come diceva Tino Scotti). Chiudere una stagione è una cosa brutta e cattiva, nelle intenzioni antimafiose di chi ha scritto questo, ed è vero: quest’estate ci siamo molto divertiti, ma molto, e vorrei che la stagione di Giuseppi e i suoi fratelli non finisse mai. Ma che il giornalismo celebri i suoi dèi, va bene, le fregnacce, questo va meno bene.
Si può dire una piccola verità prima che quella grande, sancita dalle corti o dalla realtà, accada (ho scritto questo? o lo ha pensato Wittgenstein?). A volte bisogna buttarsi, amici, anche se non come ha fatto l’ex Truce. Una volta abbiamo messo in pagina che Bush aveva vinto molte ore prima che gli americani votassero, e ci abbiamo azzeccato, e volevamo il famoso premio: Non è giornalismo. Con Mafia Capitale ci siamo solo guardati intorno: semo romani, qui la mafia non si attinge, bensì una opulenta corruzione e belle estorsioni da pompa di benzina in Roma nord; i pm dell’accusa non sono romani, come ho ripetuto a Perugia al processo vinto che mi aveva intentato il dottor Luca Tescaroli giusto una decina di giorni fa, anche se il loro capo ora amministra la giustizia nel romanissimo paradiso di San Pietro (auguri al dottore Pignatone); uno spadino giapponese come arsenale dei corleonesi all’amatriciana, e qualche appalto cooperativo per gli attacchinaggi, più stipendi alti per funzionari corrotti, non ci sembravano l’eguale di Ciancimino e Riina a Palermo; e le intercettazioni sul mondo di mezzo erano una imitazione dei romanzi criminali scritti da scrittori magistrati, per il buon uso di magistrati scrittori. Ma il giornalismo non impara, insegna. Così oggi quei titoli e quelle fresche frasche cronistiche mi hanno riportato alla bella solitudine di una controcampagna da ex baby boomer: ho brindato con i condannati, e ho considerata chiusa una stagione che avevo già chiuso per il mio dolce autunno della vita.
Quanto alla politica, non ce l’ho su con Matteo Orfini, Pd, che ho ammirato mentre si faceva la famosa falsa spanzata dei social sul barcone di soccorso ai profughi contro la chiusura dei porti del Truce. E come potrei avercela con un amico di Francesco Cundari? Dico solo che ogni tanto ammettere una cazzata è un modo per consegnarla all’archivio, invece insistere è come la bambolina che era andata a sentire la condanna definitiva per mafia e, in mancanza, ha detto che ne era uscita comunque a testa alta. Preferisco la testata di quello del clan Spada a Ostia, anche lui un simil-Pippo Calò del litorale.
Insomma, giornalismo e politica dovrebbero fare un po’ di attenzione. Anche quando dico che Greta è una brava bambina, ma non voglio affidarle la salvezza della terra, che è abbastanza tonda da cavarsela da sola. E lo dico contro il Tribunale della Scienza Internazionale, generatore di previsioni che se la battono con la fiction. Non ho le prove, a parte la realtà. Ma sono loro che dovrebbero darmele, come ha stabilito impeccabilmente la Cassazione.