Quei magistrati distratti che hanno permesso il presunto depistaggio sulle stragi
Lo strano caso degli inquirenti che hanno gestito Scarantino e che nei vari processi hanno detto di non ricordare se il telefono del pentito fosse intercettato
Da giorni si grida allo scandalo. Nei brogliacci delle telefonate del pataccaro Vincenzo Scarantino ci sarebbe la prova che qualcuno gli suggerisse le bugie da raccontare sulla strage di via D'Amelio. Si è detto e scritto che Scarantino telefonasse al poliziotto Mario Bò per avere “spiegazioni sulle domande” e cioè sul canovaccio da seguire davanti ai pubblici ministeri. Le trascrizioni dei brogliacci, in verità, dicono altro. Il 2 e 3 maggio 1995, annotavano i poliziotti che ascoltavano le conversazioni, il pentito “Enzo chiede spiegazioni della domanda che ha scritto in merito alla sua prossima presenza in aula”. E ancora: “Chiede nuovamente spiegazioni sulla domanda che ha firmato inerente alla sua adesione per presentarsi al processo”.
Mario Bò, ex funzionario della squadra mobile di Palermo, è sotto processo per depistaggio a Caltanissetta assieme e due sottufficiali, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. C'è un'altra inchiesta, a Messina, per calunnia aggravata che vede indagati due ex magistrati in servizio alla procura nissena, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, attualmente procuratore aggiunto a Catania e avvocato generale a Palermo.
C'è stato un depistaggio? I pm suggerivano le false risposte a Scarantino? Si vedrà. Il polverone sulle “domande” suggerite, di cui almeno finora nei brogliacci non c'è traccia, non può distrarre da un altro scandalo per il quale non serve attendere la fine dei processi. Ci sono dei punti fermi. I brogliacci su Scarantino sono stati scovati di recente dai pubblici ministeri di Caltanissetta negli archivi polverosi della procura. Di essi non c'è nemmeno una riga tra gli atti dei processi sulle stragi di mafia dove era naturale e giusto che i pm del passato li depositassero. Addirittura gli audio e le trascrizioni erano contenuti in fascicoli a carico di ignoti. Il materiale è stato trasmesso per competenza alla procura di Messina che sta ascoltando 19 bobine di intercettazioni.
Vincenzo Scarantino, quando si trovava sotto protezione a San Bartolomeo a Mare in provincia di Imperia, scortato dai poliziotti del “Gruppo Falcone Borsellino”, aveva a disposizione un telefono, una linea diretta, con cui chiamava poliziotti, ma anche magistrati. Sono gli stessi magistrati che hanno gestito Scarantino, non solo Petralia e Palma dunque, e che nei vari processi fin qui celebrarti sono venuti in aula, nella migliore delle ipotesi, a sostenere di non ricordare la storia del telefono e, nella peggiore, a negare la circostanza. Impossibile che non sapessero dell'utenza telefonica visto che sono stati gli stessi pubblici ministeri a chiedere, più volte, di intercettarla. Questo non significa che siano per forza responsabili di qualcosa, ma che se depistaggio c'è stato chi lo ha organizzato ha avuto vita facile. Ha goduto di una distrazione collettiva.
Come si è potuto credere a un anonimo picciotto di borgata che diceva di avere partecipato alla strage Borsellino assieme ai vecchi padrini? Se lo chiedono da sempre gli avvocati degli imputati che, in quanto tali, sono rimasti inascoltati. Lo dicevano pure alcuni giudici, fuori dal coro di chi ha sempre creduto in Scarantino. La sentenza del processo Borsellino ter, emessa dalla Corte d'assise di Caltanissetta allora presieduta da Carmelo Zuccaro, oggi procuratore di Catania, nelle motivazioni parlava di “dubbia attendibilità”, “parto della fantasia”, “dichiarazioni non genuine perché gravemente sospette di essere state attinte addirittura dalla stampa”. Tutto ciò non scalfì le convinzioni dei pubblici ministeri che appellarono alcune assoluzioni. E così Gaetano Murana, per esempio, da assolto si ritrovò condannato all'ergastolo. Un ventennio dopo, nel 2011, quella sentenza è divenuta carta straccia. Murana, come altri, è stato scarcerato dopo anni di carcere ingiusto, e ora è parte lesa nelle nuove indagini di Messina. Parte lesa di un clamoroso errore giudiziario, prima ancora che di un depistaggio.