Il no alla prescrizione che dimentica lo scandalo legato a Mannino
I magistrati della Trattativa Stato-mafia in campo per difendere la legge voluta dal ministro Bonafede
Diciamo che si sono ormai affezionati a un particolare tipo di giustizia: quella dai tempi lunghi, interminabili; quella dal solfeggio largo, pucciniano. Sono i magistrati che da venticinque anni, in un modo o in un altro, hanno recitato una parte nel palcoscenico della Trattativa e che in questi giorni sono vigorosamente scesi in campo per difendere, perinde ac cadaver, il blocco dei termini della prescrizione voluto dal ministro Alfonso Bonafede, il più manettaro dei Guardasigilli che si sono succeduti nel salone cinquecentesco di Via Arenula.
Sono i magistrati coraggiosi. Quelli che non trattano né furti né rapine, né truffe né peculati, né abuso d’ufficio né traffico di influenze, ma passano i loro giorni a fronteggiare l’emergenza mafiosa: super scortati – ci mancherebbe altro – studiano fascicoli alti come grattacieli, passano al setaccio ogni sospetto, macinano ore di intercettazioni telefoniche e ambientali; e lo fanno nel tentativo di illuminare ogni angolo oscuro della nostra storia, ogni rapporto malsano tra i boss di Cosa nostra e gli uomini dello Stato, ogni patto scellerato tra il potere dei corrotti e la criminalità delle cosche.
Sono i magistrati come Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale di Palermo, che negli anni Novanta gettò le basi del maxi processo sulla Trattativa: ipotizzò un’inchiesta chiamata “sistemi criminali”, creò un ampio contenitore e ci riversò dentro i fili invisibili che, a suo parere, legavano mafia, massoneria e servizi deviati. L’indagine non portò a nulla e fu per due volte archiviata, ma Scarpinato non mollò l’osso e continuò imperterrito la sua lenta, lentissima marcia verso la verità. O come Piergiorgio Morosini che nel 2012, da giudice per l’udienza preliminare, prese in carico l’inchiesta sulla Trattativa, istruita da Antonio Ingroia, procuratore aggiunto, e per cinque mesi studiò le carte nel tentativo di stabilire se c’erano gli elementi per il rinvio a giudizio di tutti i personaggi finiti tra le maglie di quella “boiata pazzesca”; ovviamente fece alcune puntualizzazioni in punto di fatto e di diritto, ma alla fine decise per il sì. Del resto, che cosa avrebbe potuto fare? Ingroia, non solo aveva ripreso in mano la rete dei “sistemi criminali”, ma l’aveva anche infiocchettata con le dichiarazioni, molto avventate, rese da un pataccaro d’eccezione: quel Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, sindaco mafioso di Palermo, che alla fine della giostra, da “icona dell’antimafia” come l’aveva gratificato Ingroia, è finito in galera per calunnia e per i giochi proibiti con ventitré candelotti di tritolo, scoperti per caso nel giardino della sua abitazione.
O come un altro magistrato di punta: Nino Di Matteo, il pm che ha rappresentato l’accusa nel processo, voluto da Ingroia e vidimato da Morosini, che si è celebrato per cinque anni davanti alla Corte di assise e che nell’aprile dell’anno scorso si è concluso, in primo grado, con pesantissime condanne non solo per i boss, da Leoluca Bagarella a Antonino Cinà, ma anche per Marcello Dell’Utri, senatore di Forza Italia, e per due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni.
Per Di Matteo, oggi membro del Csm, la riforma di Bonafede non esercita alcuna violenza allo stato di diritto. Anzi. L’articolo di legge inserito dal ministro nel decreto “Spazzacorrotti” prevede che, a partire del prossimo primo gennaio, i termini della prescrizione si bloccherano dopo la sentenza di primo grado; mentre Di Matteo – che vede la prescrizione come il fumo negli occhi: “Salva corrotti e mafiosi” – avrebbe voluto bloccarla molto prima, esattamente dal momento in cui la procura formula per l’indagato la richiesta di rinvio a giudizio.
Ma Di Matteo è quel che è: il magistrato che i suoi supporter hanno voluto trasformare in un simbolo e che Beppe Grillo, incantato dalle sue tesi, aveva addirittura proposto come futuro ministro della Giustizia. Poi non se ne fece nulla, si sa. Ma la sua visione dei problemi giudiziari non si discosta molto né da quella vagheggiata dal pentastellato ministro Bonafede né da quella rappresentata nei talk-show da Piercamillo Davigo, il più puro e duro degli ex pm di Mani pulite.
La legge antimafia, proprio perché chiamata a fronteggiare un’emergenza, non solo ha raddoppiato i tempi concessi alle procure per concludere le indagini; ma ha anche e soprattutto raddoppiato i termini della prescrizione. Basta l’aggravante mafiosa, prevista dal 416 bis, e i tempi di colpo si dilatano: un processo per favoreggiamento che abitualmente si prescrive in sei anni, con l’odore di mafia può restare in piedi per dodici anni; il peculato, per il quale ogni problema di giustizia dovrebbe chiudersi entro dodici anni, con il mascariamento mafioso può anche durare ventiquattro anni: fine processo mai.
Il doppio binario, diciamolo, ha formato negli anni una particolare categoria di giudici e magistrati: quelli che non hanno e non vogliono avere l’assillo del tempo. Per carità, arrivare a sentenza è importante, ma è importante anche girare l’Italia per alimentare la coscienza antimafia, per raccogliere consensi e cittadinanze onorarie, per partecipare ai programmi televisivi e spiegare le ragioni del proprio impegno, per scrivere libri e articoli a sostegno di quella parola magica che è la legalità. Tutto fa brodo. Ricordate Ingroia, il procuratore della Trattativa? Pur di collegarsi con la tv di Michele Santoro e preparare la sua discesa in politica, se ne andò addirittura in Guatemala e disquisiva da lì sulle trame oscure della nostra Repubblica. Tanto, che fretta c’era? Gli eroi antimafia non hanno l’orologio marcatempo: nessuno glielo può imporre. Non c’è e non ci sarà mai un capo che gli dica: senti, cerchiamo di accelerare; o che controlli l’ora del suo arrivo in ufficio. E se l’imputato resta impalato alla gogna per anni, chi se ne frega? Guai ai vinti. E guai agli indagati, ai sospettati, agli intercettati. Loro, gli eroi, hanno introitato l’onnipotenza di chi, con la firma su un modulo, diventa automaticamente padrone della vita degli altri.
La dura legge voluta da Bonafede nasconde l’ambizione di traghettare il sistema dal doppio binario – un codice per i processi di mafia, un altro per i processi ordinari – al binario unico: blocchiamo la prescrizione, così nessun magistrato avrà sul capo la spada di Damocle del tempo che scorre. Ed è per questo probabilmente, che riscuote tanto successo tra quelle toghe che per una vita hanno avuto a che vedere con le storiacce di mafia e con i processi che non si concludono mai. Ricordate il calvario di Calogero Mannino, l’ex ministro democristiano arrestato nel febbraio del 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa? Ha appena compiuto ottanta anni ma per oltre un quarto della sua vita è stato sequestrato dalla malagiustizia e costretto a salire e scendere le scale dei tribunali. E non è finita: assolto, dopo tre processi, dall’accusa di concorso esterno; assolto, con rito abbreviato, in primo e secondo grado dall’accusa di avere traccheggiato anche lui con i boss della Trattativa, rischia ancora un passaggio in Corte di cassazione alla quale faranno quasi certamente ricorso i pubblici ministeri per evitare che l’assoluzione dell’ex ministro possa condizionare l’esito del processo di appello per gli imputati – da Dell’Utri a Mori a Subranni – che hanno scelto il rito ordinario.
Lo scandalo legato al nome di Calogero Mannino, e di cento altri imputati come Mannino, non compare ovviamente né nell’articolo di Piergiorgio Morosini, pubblicato mercoledì dal Fatto quotidiano, né in quello di Roberto Scarpinato che si poteva leggere ieri, sempre sul giornale diretto da Marco Travaglio. Il giudice Morosini, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, si preoccupa giustamente degli effetti negativi che certe prescrizioni hanno avuto e potrebbero ancora avere sulle vittime di “reati di notevole impatto civico e sociale”: dalla sciagura ferroviaria di Viareggio ai disastri ambientali Eternit e Porto Marghera. Il procuratore Scarpinato invece, da padre della Trattativa, non solo scavalca il caso Mannino ma riconosce all’un tempo che il binario antimafia “funziona molto bene”, proprio perché “raddoppiano i termini di prescrizione”. Poi analizza i guasti del sistema penale ordinario. Sostiene che esiste in Italia “una illegalità di massa trasversale alle classi sociali” e perciò in grado di condizionare le scelte di una classe politica che, declinando la prescrizione breve con il processo lungo, ha finito per creare una micidiale falla di sistema, un “triangolo delle Bermude” capace di inghiottire ogni anno un numero spropositato di processi.
Riuscirà Bonafede con il suo giustizialismo a prosciugare, anche in parte, l’immenso “triangolo delle Bermude”? O quel triangolo finirà per diventare la fossa comune di tante esistenze, come quella di Mannino, bruciate da una giustizia senza fine e senza misericordia?