Corti d'ingiustizia
Nati da nobili ideali, i tribunali dell’Aia indagano i soldati americani, il Papa, Israele e un Nobel per la Pace citato in giudizio dai regimi islamici
Un’imputata eccezionale è apparsa questa settimana di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il tribunale dell’Onu che si occupa di controversie fra stati. Nel Palazzo della Pace, costruito con i fondi donati da Andrew Carnegie e decorato con i simboli di 46 nazioni (la torre dell’orologio viene dalla Svizzera), si giudicava un Premio Nobel per la Pace, la birmana Aung San Suu Kyi. E’ la prima leader nazionale in carica a presentarsi davanti al tribunale e a rispondere dell’accusa di genocidio che il suo paese avrebbe perpetrato ai danni della minoranza islamica rohingya. Aung San Suu Kyi ha respinto le accuse di genocidio, dicendo che se ci sono stati abusi sono stati commessi da singoli militari che verranno giudicati dalle leggi birmane. Fatto curioso che a trascinarla all’Aia sia stato il Gambia per conto della Organizzazione della cooperazione islamica, di cui fanno parte paesi come l’Iran, che ha appena ucciso mille dei propri cittadini nella repressione delle proteste antiregime; la Mauritania, che ha ancora la schiavitù; l’Arabia Saudita, che frusta dissidenti in piazza e fa a pezzi i giornalisti nei consolati stranieri; la Turchia di Erdogan che ha appena praticato la pulizia etnica dei curdi su larga scala nel Rojava siriano; il Sudan di Omar Bashir, ricercato proprio dall’Aia per crimini contro l’umanità nel Darfur; la Nigeria, dove ogni giorno muoiono cristiani, solo per citarne alcuni. Secondo i sostenitori del premio Nobel, si tratta di un’azione concertata dell’Organizzazione della cooperazione islamica contro un paese a maggioranza buddista, da parte di quella stessa Organizzazione della cooperazione islamica silente nel caso della campagna sistematica di repressione che la Cina sta conducendo contro i musulmani dello Xinjiang.
A trascinare in giudizio la birmana Aung San Suu Kyi è il Gambia per conto dei peggiori regimi islamici al mondo
Fatto ancora più curioso che sia lo stesso Gambia che, appena due anni fa, aveva abbandonato l’altro tribunale dell’Aia, la Corte penale internazionale, perché, come ha detto il ministro dell’Informazione del Gambia Sheriff Bojang, è “una corte internazionale caucasica per la persecuzione e l’umiliazione delle persone di colore, in particolare gli africani”. Il tribunale avrebbe mostrato i suoi “veri colori” rifiutando di giudicare l’ex primo ministro britannico Tony Blair per crimini di guerra in Iraq, ha detto Bojang in una dichiarazione televisiva. L’attuale procuratore capo della Corte penale, Fatou Bensouda, è del Gambia ed è l’ex ministro della Giustizia nel piccolo stato africano. Ha anche lavorato come consigliere del presidente Yahya Jammeh. Alcune vittime di Jammeh accusano Bensouda di aver taciuto sui crimini del regime gambiano quando lei era la più alta responsabile della Giustizia. E’ la stessa Corte dell’Aia che ha giudicato “illegale” la barriera antiterrorismo che Israele ha eretto nel mezzo della Seconda Intifada e che ha fermato le stragi di civili degli attentatori suicidi. Ed è la stessa Corte che, qualche giorno fa, ha ordinato agli Stati Uniti di rimuovere alcune sanzioni volute da Washington contro l’Iran. “La Corte internazionale di giustizia ha deciso all’unanimità che Washington debba rimuovere alcune sanzioni”, ha dichiarato il giudice Abdulqawi Ahmed Yusuf.
L’America è in pessimi rapporti con la Corte dagli anni Ottanta, quando i giudici dell’Aia diedero ragione al Nicaragua sandinista contro gli Stati Uniti e l’ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, Jeane Kirkpatrick, disse: “La Corte, francamente, non è ciò che suggerisce il suo nome, una Corte di giustizia internazionale, ma un ente semilegale, semigiuridico, semipolitico a cui le nazioni a volte obbediscono e a volte no”.
Nella Corte penale si discute se incriminare i soldati americani impegnati da quasi vent’anni nella guerra contro i Talebani
A settembre, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale americano, John Bolton, ha detto che la Corte è un “ente politico”. A sinistra c’è chi ne esalta proprio questo ruolo. La rivista americana The Nation scrive ad esempio che “in diversi modi, la Corte di giustizia e la Corte penale stanno entrambe facendo pressioni sugli eccessi illegali dell’egemonia statunitense”. Nelle stesse ore in cui Aung San Suu Kyi entrava in quel tribunale citata in giudizio da un paese islamico che avrebbe dovuto essere giudicato per la sua feroce dittatura, a pochi chilometri di distanza si apriva la sessione della Corte penale internazionale con il caso contro i soldati americani impegnati da diciassette anni nella guerra afghana. “Un tribunale delle Nazioni Unite, creato da un trattato di cui gli Stati Uniti non sono firmatari e che il Senato non ha ratificato, potrebbe indagare e tentare di imprigionare i cittadini americani?”, si domanda Marc Thiessen sul Washington Post. “Sfortunatamente, non è solo una domanda teorica”.
Fergal Gaynor, un avvocato che rappresenta 82 vittime afghane, lo ha definito “un giorno storico per la responsabilità in Afghanistan”. Il procuratore del’Aia Bensoud, ha detto di voler aprire un’indagine su membri delle agenzie militari e di intelligence statunitensi. L’avvocato Katherine Gallagher rappresentava due uomini, Sharqawi Al Hajj e Guled Hassan Duran, in custodia nella prigione di Guantanamo. Ha detto che entrambi avrebbero subito torture durante la detenzione americana. Anche l’avvocato personale di Trump, Jay Sekulow, era presente all’Aia per tutelare gli interessi dei membri delle forze armate statunitensi “che sacrificano tutto per difendici”. “Le nostre truppe affrontano una nuova insidiosa minaccia con il procuratore della Corte penale internazionale che sta cercando di perseguire i nostri soldati con accuse di crimini di guerra dopo che hanno rischiato la vita combattendo la guerra al terrorismo”, ha detto Sekulow.
L’Amministrazione Clinton nel 2000 firmò lo Statuto di Roma che aveva creato la Corte dell’Aia, ma aveva sollevato una serie di riserve sulla portata della giurisdizione della corte, che ha al suo attivo 900 dipendenti. Quando George W. Bush è entrato in carica nel 2001, la sua amministrazione ha promosso l’American Service Members Protection Act per proteggere le truppe statunitensi da potenziali accuse da parte dell’Aia. Nel 2002 Bolton, allora funzionario del Dipartimento di Stato, si recò a New York per “annullare” cerimonialmente lo Statuto di Roma alle Nazioni Unite. Quattro anni prima, Bolton aveva avvertito che la corte sarebbe stata “inefficace, irresponsabile ed eccessivamente politica”.
La Russia, la Cina e l’India sono le più importanti tra quasi 70 altre nazioni che non sono diventate membri della corte, sebbene abbia aderito una cosa chiamata “Palestina”. Non esattamente la via maestra per un’istituzione internazionale che pretende di essere universale e riconosciuta. Persino i paesi africani accusano la Corte di pregiudizio nei loro confronti. Delle dieci indagini in corso, nove riguardano leader africani o ribelli (l’unico caso non africano è contro gli estremisti serbi). “Giustizia bianca per gli africani neri”, dicono i critici. A seguito di un vertice dell’Unione Africana, il primo ministro etiope Hailemariam Desalegn ha denunciato la corte come una “caccia razziale”.
Quasi un decennio fa, la Corte ha accusato il presidente del Sudan Omar al Bashir di svariati crimini e ne ha chiesto l’arresto. Nessun processo si è ancora svolto e Bashir continua a viaggiare liberamente verso gli stati arabi e africani che hanno firmato il trattato di attuazione della Corte, come il Sud Africa.
La pubblica accusa all’Aia non è riuscita a dimostrare la colpevolezza neppure del dittatore africano Laurent Gbagbo
Lo scorso gennaio, la Corte penale ha persino assolto l’ex presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo per crimini contro l’umanità legati alle violenze che sono seguite alle elezioni del 2010 e che hanno causato la morte di tremila persone. Gbagbo, presidente della Costa d’Avorio dal 2000 fino al suo arresto nel 2011, è stato il primo ex capo di stato a essere processato in tribunale dalla sua inaugurazione. La sua assoluzione segue la chiusura del procedimento contro il vice presidente del Kenya, William Ruto nel 2016 e la decisione della corte nel 2014 di far cadere le accuse contro il presidente keniota Uhuru Kenyatta, anch’esse legate a violenze postelettorali. Il giudice capo Cuno Tarfusser ha affermato che l’accusa non è riuscita a dimostrare che Gbagbo e il suo ex braccio destro, Charles Blé Goudé, avevano ordinato gli attacchi contro i civili dopo il voto. Migliaia di persone sono morte negli scontri tra le forze di sicurezza ivoriane e i sostenitori del rivale Alassane Ouattara. “La Corte è nata dalla convinzione secondo cui nel XXI secolo un impegno condiviso verso la legalità avrebbe posto fine all’impunità; che la telecomunicazione avrebbe fatto sì che le persone si preoccupassero più empaticamente di tragedie lontane; che i cattivi si sarebbero comportati come i leader democratici occidentali e che burocrati internazionali imparziali avrebbero potuto perseguire in modo uniforme entrambe le parti”, ha scritto il giurista americano Eugene Kontorovich. Niente di tutto questo è avvenuto.
La Corte dell’Aia ha discusso se prendere anche soltanto in considerazione le accuse che un gruppo di associazioni delle vittime dei preti pedofili ha depositato contro il Papa Benedetto XVI e tre alti esponenti del Vaticano – due segretari di stato come Tarcisio Bertone e Angelo Sodano e William Levada, prefetto per la Dottrina della Fede dopo Ratzinger – per “crimini contro l’umanità” per la presunta copertura dei reati commessi da prelati contro i minori. Il fatto che la Corte abbia anche soltanto accettato di valutare il caso ha consentito ai media di tutto il mondo, come il Guardian, di titolare: “Perché il Papa deve essere processato all’Aia”. La vicenda ha tenuto banco dal settembre 2011 al giugno 2013.
Si parla di un’inchiesta su Benny Gantz, il generale israeliano avversario di Netanyahu, che riguarda la guerra a Gaza
Due mesi fa, alla Corte dell’Aia è arrivato il caso contro l’ex generale israeliano Benny Gantz, principale contendente politico di Benjamin Netanyahu. A citarli in in giudizio un cittadino olandese di origine palestinese che utilizza le leggi olandesi sulla “giurisdizione universale”, Ismail Ziada, che chiede un risarcimento di 600 mila euro per la morte di sei membri della sua famiglia durante la guerra a Gaza del 2014. Il destino di questa corte ricorda il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, a Ginevra, che dedica il settanta per cento delle sue risoluzioni a condannare Israele. E’ la stessa corte che non sa come processare un solo responsabile dell’Isis. O che non si sognerebbe mai di mettere sotto inchiesta la Turchia di Erdogan per la recente offensiva militare contro i curdi o l’Iran per i 30 mila morti durante le grandi purghe ed esecuzioni degli anni Ottanta.
“I prossimi anni ci diranno se la Corte penale internazionale sia un successo o un fallimento”, aveva scritto nel 2007 Juan Méndez, presidente dell’International Center for Transitional Justice. “Se finisce con un paio di processi e una ventina di mandati di cattura, la fame di giustizia internazionale svanirà completamente”. E proprio così sta finendo. Ha scritto il giurista dell’Università di Chicago Eric Posner: “La corte è stata un fallimento. Sebbene abbia uno staff di oltre settecento persone e un budget annuale superiore a cento milioni di dollari, la Corte ha finora completato un processo: quello di Thomas Lubanga, comandante della guerra civile in Congo”.
Sono nate con le più nobili e migliori intenzioni. Ma ora le corti dell’Aia si ritrovano impotenti nel trascinare in giudizio i peggiori satrapi africani, quando li ricercano per crimini se li vedono sfilare davanti, mentre inscenano processi orwelliani alle democrazie che si difendono dal terrorismo e una icona della pace cui gli stessi umanitaristi avevano comminato un Nobel è trattata alla stregua di una criminale di guerra. La giustizia transnazionale trasformata in farsa.