Il piazzale degli eroi
Chi è il magistrato più coraggioso del reame? S’avanza Gratteri, con una retata di trecento boss della ’ndrangheta. Vuole imitare Giovanni Falcone. Ma sul piedistallo più alto c’è ancora Nino Di Matteo, pm della Trattativa
Chi è il magistrato più brillante e coraggioso del reame? Davanti a quale eccellentissima toga dovrà inchinarsi la balbettante politica che non riesce più a risolvere i problemi o quella, ancora più nefasta, che ostenta le manette come rimedio contro ogni male e contro ogni ingiustizia? Sul piazzale degli eroi si è affacciato l’altro ieri Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, che non ha fatto mistero della sua ambizione: pretende un piedistallo come quello che toccò in vita a Giovanni Falcone, il giudice che portò alla sbarra i sanguinari corleonesi di Totò Riina; e chiede una protezione straordinaria, comunque non inferiore a quella che il ministero dell’Interno assicura ad Antonino Di Matteo, il pubblico ministero che nell’aula bunker di Palermo ha svelato il mysterium iniquitatis della trattativa tra i boss di Cosa nostra e alcuni organi deviati dello Stato, che ha sfidato il Quirinale di Giorgio Napolitano, che ha scavato nel doppiofondo delle verità ufficiali, che per cinque anni ha martellato col suo estremismo la Corte d’Assise, che ha difeso finché ha potuto le patacche di Massimo Ciancimino, che ha scritto libri, tanti libri, uno sui collusi e un altro sul patto sporco, che non s’è persa una intervista né un talk-show e che oggi, manco a dirlo, sente di essere il bersaglio preferito delle cosche, l’uomo più minacciato d’Italia.
Ma anche Gratteri sente sul collo il fiato selvaggio della minaccia mafiosa. Ha sostenuto che i boss della ’ndrangheta gli hanno lanciato non pochi avvertimenti e che le sue paure – tutte legittime, tutte sacrosante – non potranno non toccare livelli estremi ora che, in un colpo solo, ha trascinato in galera oltre trecento boss della Calabria e ha chiuso la sua mastodontica inchiesta con numeri da capogiro: 416 indagati, un’ordinanza di custodia cautelare lunga 13.500 pagine, cinque milioni di fotocopie, da consegnare agli arrestati, stampate in gran segreto in un’altra città del mondo e fatte arrivare con camion blindati per evitare fughe di notizie: perché si sa che non c’è boss che non abbia i suoi confidenti tra le forze dell’ordine e non c’è picciotto che non sia in grado di corrompere uno sbirro, un appuntato, un maresciallo.
In un colpo solo ha trascinato in galera oltre trecento boss e ha chiuso la sua mastodontica inchiesta con numeri da capogiro. Bisognava sentire con quanto orgoglio e quanto compiacimento il procuratore capo ha illustrato al Paese i numeri della retata
Bisognava sentire, nel giorno della conferenza stampa, con quanto orgoglio e quanto compiacimento il procuratore capo Gratteri ha illustrato al Paese – sì, al Paese: perché la ’ndrangheta da tempo non è più un fenomeno regionale – i grandi numeri della retata. C’erano, nel suo linguaggio furori che a tratti richiamavano il poliziotto di Graham Greene e il suo inno spocchioso all’onnipotenza della legge: “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare”, urlava. Ma il punto di riferimento restava Falcone, il magistrato antimafia per eccellenza, l’uomo che nel febbraio del 1986 consegnò alla giustizia i mammasantissimi di cui Palermo, regia e conventuale, non osava nemmeno pronunciare i nomi: da Michele Greco, detto “il papa”, a Luciano Liggio, col suo sigaro storto; da Totò Riina, il capo dei capi, a Pippo Calò, che era stato il mestolo di ogni pentolone di sangue e violenza. E poi c’erano i pentiti, quelli che sbriciolavano nelle udienze ogni presunzione degli avvocati di difesa: c’era Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile e arrivato in Italia col piglio di un angelo sterminatore, e c’era Totuccio Contorno, un killer che altri killer hanno tentato a tutti i costi di ammazzare prima della sua deposizione davanti alla Corte presieduta da Alfonso Giordano.
Certo, nella retata di Catanzaro non c’erano nomi che potessero raffrontarsi, per calibro e ferocia, ai 475 imputati che Falcone aveva costretto a recitare sul palcoscenico della disfatta, in un’aula bunker fatta costruire apposta dentro le mura dell’Ucciardone. Ma i numeri sì, quelli c’erano. E Gratteri li ha calati tutti sul tavolo a suggello della sua personalissima epopea: “Questa indagine – ha detto – è la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”.
I numeri e nulla più, comunque. Falcone non cedeva a suggestioni simili a quelle che attraversano “Il potere e la gloria” di Graham Greene. Non dava credito a metafisiche banali e perdenti, come quella del cosiddetto terzo livello che ipotizzava un tavolo ovale nel quale sedevano e complottavano uomini di Cosa nostra e ras della politica. Non amava scorciatoie facili e giudiziariamente sterili: quando Giuseppe Pellegriti, un pentiticchio di terz’ordine, gli propose chissà quali rivelazioni per incastrare Salvo Lima, pro console di Giulio Andreotti in Sicilia, il magistrato palermitano capì che era una polpetta avvelenata e incriminò Pellegriti per calunnia. Poteva uscirne con la testa cinta da alloro e avrebbe fatto felice Leoluca Orlando, il sindaco populista che tiranneggiava allora su un’antimafia chiodata, quella che sputacchiava pure sulla ragionevolezza mite di Leonardo Sciascia. Invece Falcone preferì la via della verità. E, stoicamente, accettò addirittura gli sfregi di Orlando che, con la tracotanza di un predicatore gesuita, lo accusò persino – roba da pazzi – di tenere le prove nascoste nei cassetti. Ma Falcone non aveva la mistica della toga. Non credeva nella missione salvifica della magistratura. Sosteneva semplicemente che la mafia, come tutte le cose del mondo, ha un inizio e una fine e che per combatterla basta raccogliere prove e testimonianze capaci di reggere in dibattimento: perché un mafioso che la fa franca dopo essere stato inquisito è una sconfitta non solo per il magistrato che ha istruito l’inchiesta ma anche e soprattutto per lo Stato.
Gratteri c’è rimasto male. Non solo se l’è presa con la stampa e la sua scarsa sensibilità, ma ha anche lanciato sospetti pesanti. Il trenino Lego che il procuratore di Catanzaro ha tenacemente e meritoriamente smontato ha ancora da toccare parecchie stazioni
Il procuratore Gratteri, a differenza del giudice simbolo dell’antimafia, crede che un’inchiesta giudiziaria, indubbiamente portentosa come quella che lui ha firmato, possa contribuire a salvare il mondo; o, quantomeno la sua regione: “Il giorno del mio insediamento – ha tenuto a precisare nel giorno della conferenza stampa – ho pensato di smontare la Calabria come un treno Lego e poi rimontarla, piano piano”. Era la sottolineatura che, a suo avviso, avrebbe dovuto accendere, attorno alla retata, il consenso del mondo politico, gli applausi della società civile e i titoloni sulle prime pagine dei giornali. Tutte cose che non sono arrivate; o sono arrivate in maniera ridotta, sbiadita: non con i colori lucenti e smerigliati che abitualmente accompagnano un’impresa eroica e straordinaria, ma con quelli smunti e appannati dell’ordinaria amministrazione. Gratteri c’è rimasto male. Non solo se l’è presa con la stampa e la sua scarsa sensibilità, ma ha anche lanciato sospetti pesanti, pesantissimi contro il potere che da sempre, vada da sé, isola e perseguita chi, come lui, rischia ogni giorno la vita per ripulire la propria terra da ogni nefandezza, da ogni collusione, da ogni intrigo, da ogni corruzione. E’ la teoria della trama oscura. All’interno della quale ha trovato degna collocazione anche il veto con il quale Giorgio Napolitano bloccò, dal Quirinale, proprio la nomina di Gratteri a ministro Guardasigilli del governo Renzi. E’ il vittimismo di Stato. Un vittimismo che per un capriccio del destino si ingrotta, serpigno, nella mente di molti magistrati coraggiosi. Ricordate quando Antonio Ingroia dall’alto del suo strapotere alla procura di Palermo credette non solo di intercettare Napolitano nel suo ruolo, costituzionalmente protetto, di presidente della Repubblica; ma spacciò poi come un complotto di palazzo la sentenza inappellabile della Consulta che imponeva al capo della procura palermitana di distruggere immediatamente le bobine?
Anche Di Matteo ha ostentato – come Gratteri, come Ingroia – il suo vittimismo di Stato. Anche lui era accucciato dietro la porta di via Arenula, sicuro del fatto che Beppe Grillo avrebbe aperto da lì a poco il lucchetto per nominarlo ministro della Giustizia. Ma le cose sono andate poi diversamente ed è difficile, ora che il successo della Trattativa si sfarina sempre più nei processi d’appello, mantenere alto il livello delle ambizioni. Tuttavia, piaccia o no, è lui il magistrato coraggioso che ancora troneggia nel piazzale degli eroi. Lo hanno elevato sul piedistallo più ardito i cento comuni che gli hanno conferito la cittadinanza ordinaria, le associazioni – dalle Agende rosse alla Scorta Civica – che lo accompagnano nei pellegrinaggi del fervore antimafioso, il suo giornaletto di riferimento che ogni giorno lo osanna con otto titoli in homepage, i colleghi che due mesi fa lo hanno eletto al Consiglio superiore della magistratura come interprete fedele della linea dettata da Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite che la tv ha trasformato in un Sommo Sacerdote di Giustizia. Gratteri ne ha ancora strada da fare. La Trattativa era una boiata pazzesca ma la Corte, con i suoi giudici popolari, ci ha creduto; e dopo un processo durato cinque anni ha emesso una sentenza che condanna a 12 anni di carcere non solo due boss sopravvissuti al 41 bis come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, ma pure due alti ufficiali dei carabinieri, che tentarono, al tempo delle stragi, di arginare il fiume di sangue: Mario Mori e Antonio Subranni. Il trenino Lego che il procuratore di Catanzaro ha tenacemente e meritoriamente smontato ha ancora da toccare parecchie stazioni: deve affrontare il tribunale del riesame, il rinvio a giudizio, il processo di primo grado. Quanti saranno i colpevoli e quanti gli innocenti? Il piazzale degli eroi non è proprio dietro l’angolo.