Tempo senza giustizia
L’irragionevolezza della riforma della prescrizione va contro ogni principio costituzionale
I dati, elusi dal legislatore, e l’esperienza quotidiana della giustizia penale documentano che il rapporto fra tempo e processo penale ricorda il comportamento dei gas. Come le particelle di “etere” tendono a occupare tutto lo spazio a disposizione, così il processo penale tende a occupare tutto il tempo reso disponibile dalla prescrizione. L’uno cresce quanto si dilata l’altra. È una specificità della realtà nazionale che implica tra le altre tre conseguenze difficilmente eludibili: rende il nostro sistema penale pressoché non confrontabile con gli ordinamenti dei paesi nei quali il giudizio dura anche solo un terzo rispetto a quello italiano; falsifica il principale argomento a favore della riforma, che nelle intenzioni dei sostenitori dovrebbe accelerare il processo; avvalora, all’opposto, il timore che la “riforma” esponga l’imputato al rischio di un giudizio penale senza fine. Per quest’ultima ragione, in particolare, la “nuova” prescrizione in vigore dal 1° gennaio traccia un solco profondo con le secolari consolidazioni della cultura europea, con il paradigma garantista e con la Carta costituzionale. La riforma detta un tempo senza ragione, sorretta da ragioni senza giustizia.
Tempo senza ragione. Il tempo è inesorabile. Difficile dire meglio di Shakespeare: “Come incalzano le onde verso la spiaggia petrosa. Così gli istanti nostri si affrettano a lor fine. Mutando ognuno luogo con quello che innanzi corre, In affannosa sequela essi urgono avanti”. Non meno di tutte le altre realtà mondane, il diritto e il delitto sono consumati dal tempo. Più degli altri “diritti”, il diritto penale “sente” il tempo che passa non solo per l’intima correlazione tra la responsabilità dell’autore con uno specifico, irripetibile fatto storico che allo stesso autore dev’essere personalisticamente attribuibile. Il divenire sfibra, fino a dissolvere, le trame del “diritto punitivo”, sia dal punto di vista dell’attesa di giustizia della “società”, sia dal punto di vista dell’autore e della vittima. Difficile dire meglio di Blaise Pascal: “Il tempo guarisce i dolori e le polemiche, perché mutiamo, perché non siamo più la stessa persona. Né l’offensore né l’offeso sono gli stessi”.
Ragioni senza giustizia. Perseguire e punire, sempre e comunque, qualsiasi reato anche decine di anni dopo la commissione è ingiusto. Una metafora mitologica chiarisce efficacemente questo aspetto cruciale del tema. Crono, dio del tempo, per fermare Urano, che in un ciclo infinito fecondava Gea e ne assassinava i figli, lo rende sterile. L’autorità accettabile è quella che subisce gli effetti del tempo. Non è accettabile l’autorità assolutisticamente padrona dell’esistenza altrui, come denunciò Madame de Maintenon (“Le roi prend tout mon temps”). Per contro, ogni potere è legittimo se “subisce” una qualche ragionevole misura. Senza questo limite il processo resta esposto al rischio, di per sé inaccettabile, che l’azione penale, per ogni reato, per tutti i reati, in caso di assoluzione o di condanna, si prescriva quando piace al “Procuratore del Re”. Occorre un limite, occorre un “tetto”.
Perseguire e punire, sempre e comunque, qualsiasi reato anche decine di anni dopo la commissione è ingiusto e profondamente in contrasto con la Costituzione. La soluzione della legge n. 3 del 2019 stride con la natura sostanziale dell’istituto, sancita dalla Consulta, ed è comunque inadeguata sotto il profilo dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Se alla cosiddetta legge ex Cirielli è stato dai più contestato di avere eretto la dimensione sostanziale della prescrizione a socio tiranno di quella processuale, la riforma recide il legame tra prescrizione e diritto penale sostanziale e, quindi, i princìpi di precisione della legge penale, di responsabilità penale, di colpevolezza. Come faceva intendere Pascal, l’imprescrittibilità processuale di tutti i reati contrasta anche con la finalità rieducativa della pena. È irragionevole che la prescrizione, fino alla sentenza di primo grado ovvero al decreto penale di condanna, operi secondo un criterio di tendenziale proporzionalità diretta in rapporto alla gravità dell’illecito, mentre con l’introduzione della fase di appello, ovvero con l’opposizione, nel processo, si perda ogni traccia di questa correlazione e per ogni reato venga adottata l’opzione che fino a quel punto è riservata solo ai delitti in assoluto più gravi. In ogni caso, è palese l’assenza di proporzione in una disciplina che impone a tutti gli imputati, quale che sia il reato commesso, dalla strage all’esercizio molesto dell’accattonaggio (art. 663-bis c.p.), un giudizio potenzialmente infinito. È una soluzione inconciliabile con il principio del giusto processo, che annichilisce l’esigenza sottesa al medesimo articolo 111 della Carta di un giudizio non “vincolato” solo a un’endemica e incontrollabile discrezionalità e che abbia una durata compatibile con la conservazione delle prove.
Giuseppe Losappio è avvocato e professore di Diritto penale all'Università degli studi di Bari “Aldo Moro”