L'imperizia dei periti
Chi sceglie gli esperti nel processo? Come nascono i giudizi sbagliati. Controindagine
Ormai non sono poche le sentenze con cui i giudici italiani hanno condannato l’Inail a risarcire, come infortunio sul lavoro, tumori cerebrali sviluppatisi in persone che utilizzavano intensamente telefoni cellulari (ad esempio, App. Brescia n. 614/2009, confermata da Cass. n. 17438/2012, e Trib. Firenze n. 391/2017). In tutti questi casi, alla sentenza si è arrivati dopo che i consulenti tecnici di ufficio (Ctu) avevano ravvisato una maggiore probabilità di insorgenza di tumori cerebrali a seguito di una prolungata esposizione a radiofrequenze. La recentissima sentenza della Corte di appello di Torino del 3.12.2019, che ha confermato l’analoga decisione del Tribunale di Ivrea (n. 96/2017), è solo l’ultima della serie.
La Corte torinese si è trovata a decidere un caso in cui tutti i Ctu, sia in primo grado sia in appello, avevano concluso per l’esistenza di un nesso di causalità fra l’esposizione a telefoni cellulari per diverse ore al giorno per oltre dieci anni (15, in questo caso) e l’insorgenza della rara neoplasia sviluppata dal lavoratore (un neurinoma). Quando i giudici si trovano a dover decidere di complesse questioni scientifico-tecniche, la legge prevede che essi si avvalgano di esperti di loro fiducia, cioè appunto i Ctu, perché questi li aiutino a prendere cognizione dello “stato dell’arte” sulla questione. Tanto che, quando il giudice segue il parere espresso dal Ctu, non è, salvo in alcuni casi eccezionali, neppure tenuto a motivare perché l’abbia fatto.
È interessante chiedersi come facciano i periti sistematicamente a giungere a conclusioni per nulla condivise dalla comunità scientifica
Nel caso della sentenza di Torino, quindi, i giudici si sono trovati dinanzi a ben due consulenze d’ufficio (una in primo grado, una in appello) che hanno ritenuto provato il nesso causale. Difficile biasimarli se hanno ritenuto di adeguarvisi. Sarebbe più interessante, semmai, chiedersi come facciano dei periti a giungere regolarmente, sistematicamente anzi, a conclusioni come questa che non sono affatto condivise dalla comunità scientifica e sono, in particolare, rigettate dalle principali autorità di vigilanza tecnico-scientifica anche italiane, come l’Istituto superiore di sanità. Questo è argomento non facile, che richiederebbe un esame dei modi in cui i Ctu vengono selezionati e poi scelti dal singolo giudice e dei modi in cui si controlla il loro operato. Ma è argomento troppo lungo per parlarne qui e comunque ne ho trattato nel mio libro “La scienza in tribunale” (Fandango).
A differenza della sentenza di Ivrea, che aveva commesso alcuni grossolani errori logici, inescusabili benché ispirati dal Ctu, i giudici d’appello di Torino non hanno scritto granché di censurabile, dato che i veri errori sono imputabili ai loro consulenti. Con una importante eccezione, però.
L’eccezione è questa: l’argomento con cui i Ctu di primo e secondo grado (e, di riflesso, le due sentenze) si sono liberati di alcune significative ricerche che negano il nesso causale tra cellulari e tumori consiste nel sostenere che dette ricerche, da un lato, sarebbero state finanziate (in tutto o in parte) da società di telefonia e, dall’altro lato, che, rispetto alle ricerche di provenienza “privata”, sarebbero preferibili (sempre in termini di “obiettività”, dunque di assenza di conflitti d’interessi) quelle provenienti da istituti “pubblici”. L’argomento, però, prova troppo, e per di più è anche errato. Prova troppo perché i Ctu e la sentenza attribuiscono fiducia a ricerche che sono state anch’esse finanziate da enti portatori di precisi interessi; inoltre alcuni di questi, come l’Istituto Ramazzini, sono anch’essi enti “privati”. Né si comprende per quale ragione un ente “pubblico” non possa anch’esso, legittimamente, perseguire un proprio interesse che potrebbe benissimo, in astratto, far velo all’obiettività della ricerca. Senza contare che molte scoperte sulla nocività di determinate sostanze sono state finanziate proprio dagli enti privati che le producevano. Ma, soprattutto, è un argomento errato. Posto infatti che il ricercatore è tenuto alla trasparenza sui finanziamenti e su ogni circostanza che possa influire sulla sua ricerca, il giudizio sulla bontà dei suoi risultati non può certo ridursi al rilievo di un potenziale conflitto d’interessi. Se sono un professore di matematica al liceo, è chiaro che ho un forte interesse a che la scuola continui a prevedere l’insegnamento della matematica: ma non per questo avrò torto contro qualcuno che pretenda di dimostrare che la matematica è un’opinione perché 2+2=5. E d’altronde, il negazionismo climatico è scientificamente infondato non perché chi lo sostiene sia più o meno direttamente finanziato dalla lobby petrolifera (benché in molti casi sia davvero così), bensì perché i climatologi hanno portato argomenti validi a dimostrare l’origine antropica del riscaldamento globale. A poterci dire se una ricerca scientifica è corretta e se i suoi risultati sono validi non è chi sia il suo autore (chi lo paga, che opinioni abbia, eccetera): ce lo dice la ricerca stessa e il modo in cui il resto della comunità scientifica si confronta con essa.
Se l’Istituto Superiore di Sanità ci dice che non esiste prova che i cellulari causino tumori, questo è il dato da cui periti e tribunali devono partire
Ora, la Corte d’appello, e prima ancora il Tribunale di Ivrea, nonché i Ctu, per liberarsi delle ricerche che contraddicono la loro conclusione, invocano un presunto principio di “terzietà” o “indipendenza” sancito da una sentenza della Cassazione (n. 17438/2012). Tuttavia, non è la Cassazione a poter stabilire quali siano i criteri in base ai quali valutare le ricerche scientifiche. È la comunità scientifica, non un giudice, a determinare se una ricerca sia valida oppure no. Se poi il concetto di “comunità scientifica” vi pare vago (e infatti dappertutto esistono vasti corpus di giurisprudenza per stabilire proprio quale sia la comunità scientifica a cui fare riferimento: basti pensare alla sentenza “Daubert” negli Stati Uniti e alla sentenza Cass. n. 43786/2010 in Italia), potete usare una semplice rule of thumb: fidarvi degli organi tecnico-scientifici pubblici preposti per legge alla tutela della salute, che hanno tutte le competenze necessarie per giungere alla conclusione corretta. Se l’Istituto Superiore di Sanità ci dice che non esiste prova che i telefoni cellulari causino tumori, allora questo è il dato da cui periti e Tribunali dovrebbero partire.
In Italia, invece, si sta affermando, sotto la maschera di una richiesta d’imparzialità e oggettività del parere tecnico-scientifico, la stranissima pretesa che, su questioni complesse, possano esprimersi tutti tranne proprio gli esperti, cioè coloro che della questione si sono già occupati. E’ successo, se ricordate, con il caso Stamina, quando il Tar del Lazio pretese che della commissione valutatrice del “metodo” di Vannoni e Andolina facessero parte solo esperti che su Stamina non si fossero ancora pronunciati. E infatti l’associazione che ha dato vita al caso deciso dalla Corte di Torino (la A.p.p.l.e, cioè “Associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog”), nel suo comunicato stampa celebrativo della “vittoria”, sostiene proprio che, siccome alcuni membri dell’Istituto superiore di sanità sono stati in passato membri di un organismo (l’Icnirp) che da decenni nega il nesso causale fra tumori e telefonini, allora essi si troverebbero in “conflitto d’interessi”. Ancora una volta, l’argomento prova troppo, e per di più è illogico e errato. Prova troppo, perché se essersi già pronunciati sulla materia costituisce conflitto d’interessi, allora era in conflitto d’interessi anche il Ctu del Tribunale di Ivrea, che dal 2010 circa scrive articoli per sostenere un nesso causale fra telefonini e tumori. Ed è illogico ed errato, perché in questo modo si finisce per escludere dal processo proprio coloro che sono più esperti.
Nonostante la (comprensibile) tentazione di biasimare i giudici, insomma, questo tipo di sentenze “antiscientifiche” richiede di ragionare a mente fredda su riforme di sistema che risolvano il nodo cruciale: cioè i criteri di selezione e i metodi di controllo degli “esperti” nel processo. Non si tratta certo dell’unico problema che affligge la giustizia italiana, e nemmeno del più grave: perché, ad esempio, ci dovrebbe preoccupare ancora di più il crescente “interventismo” dei giudici in aree sottratte alla loro competenza, come dimostra la recente iniziativa della magistratura amministrativa (vedi Tar Lazio n. 500/2019 e Cons. Stato n. 5887/2019), proprio in materia di rischi connessi all’uso dei telefonini, di ordinare al Governo di effettuare una “campagna informativa” priva di senso.
Ma, se parliamo della deriva “antiscientifica” dei tribunali, la soluzione è da ricercare qui. Il fatto poi che parti politiche e sociali, giornali e altri media straparlino di sentenze che avrebbero “confermato il nesso di causalità tra esposizione ai telefonini e tumore al cervello” è il frutto amaro di una decennale confusione tra esito processuale e verità scientifica: la verità non la stabiliscono i tribunali. Ma anche questo, un grave e diffuso problema di ignoranza e incultura, è di tutti noi italiani e non solo dei giudici.
Quanto potere possono avere i giudici nel sindacare le scelte in ambito scientifico e in materia di diritto alla salute, come nei casi Di Bella, Stamina, Ogm e Xylella? O affermare la causalità tra autismo e vaccini, ampiamente sconfessata dalla comunità scientifica? In questo libro, attraverso casi concreti, Luca Simonetti si occupa del rapporto sempre più problematico tra scienza e giustizia in Italia ("La scienza in tribunale", Fandango, 2018).