Roma. “Non so quante volte, in tutti questi anni, ho ascoltato su YouTube le dichiarazioni conclusive di Enzo Tortora nel suo processo. Le so a memoria. Oppure quante volte ho letto Il processo di Franz Kafka. L’innocente che finisce in tribunale ha due riferimenti: Tortora e Kafka. Loro mi hanno accompagnato, li ho tenuti sempre parcheggiati nel mio cervello”. A parlare, intervistato dal Foglio, è Mario Landolfi, ex ministro delle Comunicazioni nel terzo governo Berlusconi ed ex esponente di spicco di Alleanza nazionale e poi del Popolo della Libertà. Lo scorso 23 dicembre è caduta l’accusa infamante che per dodici lunghi anni ha devastato la sua vita, ponendo anche fine alla sua carriera politica: quella di essere colluso con la camorra. Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere lo ha assolto dalle accuse di truffa e favoreggiamento mafioso, per le quali la Dda di Napoli aveva chiesto una condanna a tre anni e sei mesi. Una vicenda giudiziaria paradossale, che sembra ispirarsi proprio al caso Tortora e al romanzo di Kafka. Dal primo sembra aver tratto l’accusa (la mafia), l’accusatore (la procura di Napoli) e il metodo (l’utilizzo di pentiti), dal secondo sembra aver ripreso i meccanismi assurdi che spesso caratterizzano la giustizia, specie in Italia: un’indagine avviata nel 2007, un processo cominciato nel 2012 e una sentenza di primo grado giunta dopo addirittura sette anni di dibattimento, con l’imputato che pur di essere giudicato rinuncia alla prescrizione.
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