(foto LaPresse)

La barriera degli ermellini

Marianna Rizzini

Cinque (più due) magistrati contro lo strapotere giustizialista, non solo sulla riforma della prescrizione

La linea del fronte c’era, ma non si vedeva. Anche prima che il premier Giuseppe Conte twittasse la frase “non chiedetemi se sono garantista o giustizialista, queste sono contrapposizione manichee che vanno bene per i giornali”. Perché improvvisamente, all’apertura dell’anno giudiziario, pur senza i bagliori psichedelici della trincea di “1917”, il film di Sam Mendes sulla Prima guerra mondiale, si era già stagliata nell’ombra quella che potrebbe essere chiamata “Barriera degli Ermellini”: un muro fatto delle parole dei giudici anti-riforma della prescrizione targata Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia nel governo Conte bis, ma anche dei giudici schierati contro le modalità mostrificanti del cosiddetto processo mediatico o dei giudici che ora sottolineano la pericolosità del fare politicamente leva sulla paura (vedi Decreti sicurezza). Giudici che c’erano, appunto, che ricoprivano e ricoprono posizioni apicali, ma la cui voce non si alzava. Forse perché parlavano molto gli altri: i magistrati scesi in politica, i magistrati dal protagonismo facile, i magistrati che veicolano il mantra del “se sei innocente non hai nulla da temere dal un tribunale”, mantra spesso smentito dai fatti. E improvvisamente non soltanto Bonafede, ministro a Cinque stelle che della prescrizione ha fatto una bandiera personale, ma anche il consigliere del Csm e magistrato simbolo di una certa impostazione giustizialista Piercamillo Davigo, ex magistrato del pool di Mani Pulite e (per quanto riguarda l’uso politico della paura) anche l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, hanno trovato resistenza impensabile: ché finora erano stati gli avvocati, e non i magistrati, a esporsi in nome del principio di civiltà giuridica messo a rischio dalla riforma Bonafede. 


Le parole di Margherita Cassano (Corte d’appello di Firenze) sull’uomo che diventa “unicamente un imputato”


 

E dunque, qualche giorno fa, da Roma a Milano a Firenze a Napoli, si è alzata, inattesa, l’onda del “no” alla semplificazione giudiziaria populista, dando evidenza anche plastica all’opposizione finora sommersa alla “Trimurti” che in qualche modo ispira Bonafede: Davigo e i magistrati di linea davighiana Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita. Un triangolo che corre lungo la direttrice Milano-Palermo-Catania – senza dimenticare, sempre a Palermo, Roberto Scarpinato, il procuratore generale che qualche giorno fa ha salutato favorevolmente quella che gli pare “un’inversione di tendenza” per aumentare l’efficacia dell’azione penale: il provvedimento blocca-prescrizione, appunto.

 

Ma se finora i magistrati non davighiani evitavano la presa di posizione, dal primo gennaio, giorno di entrata in vigore della riforma Bonafede, le prese di posizione si rincorrono, dentro e fuori al dibattito sul processo mediatico – che fa da sfondo a quello sulla prescrizione, come ha notato, su questo giornale, l’ex presidente dell’Anm e già vertice della corrente Area Eugenio Albamonte, magistrato convinto che la politica debba evitare la ricerca del consenso attraverso il “populismo penale” (compreso il rischio di “processo infinito”). Ma che cosa si muove, e chi si è mosso, lungo la linea del fronte “no Bonafede no populismo penale-no populismo politico”?

 

Andando a ritroso, troviamo intanto il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone, in passato pretore a Monsummano Terme e giudice a Pistoia, che qualche giorno fa, a Roma, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del premier Giuseppe Conte, della presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, della neopresidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, ha fatto risuonare l’allarme: attenzione, con la riforma Bonafede l’aumento del carico sulla Corte potrebbe diventare considerevole. E dunque, ha detto, “accanto a un’auspicabile riduzione delle pendenze in grado di appello derivante dall’attesa diminuzione delle impugnazioni meramente dilatorie, si prospetta un incremento del carico di lavoro della Corte di Cassazione di circa 20-25 mila processi per anno, corrispondente al quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado, ne deriverebbe un significativo incremento del carico penale, vicino al 50 per cento…”. Non che Mammone sia un giudice “rivoluzionario”. Anzi: membro di Magistratura indipendente, è un moderato. Ma un moderato che, a inizio 2019, nella sua relazione sulla giustizia, sempre in apertura dell’anno giudiziario, però in tempi di governo gialloverde invece che rossogiallo, e soprattutto in tempi di dibattito acceso sulla nave Diciotti, aveva così aperto la sua relazione: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti… evitare ogni regressione in materia di diritti umani è un compito che si è data la comunità internazionale. E’ compito degli Stati moderni apprestare strumenti idonei per dare risposte alla richiesta di tutela che gli individui, cittadini e non, richiedono per i loro diritti”. Come dire: i decreti sicurezza lasciano perplessi. 


Luigi Riello e il no all’“ergastolo processuale”. Francesco Enrico Saluzzo e il no all’idea dell’imputato (o vittima) “a vita”


 

E se sul lato prescrizione, come si vedrà, è da Firenze che risuonano parole tranchant contro la riforma Bonafede (nella relazione del presidente della Corte d’Appello Margherita Cassano), è stato Giovanni Salvi, procuratore generale di Cassazione, anche detto “papa straniero”, essendo stato eletto senza essere un membro del Csm, a sottolineare la pericolosità di una certa impostazione allarmistica sulla sicurezza, nonostante su altri temi, prescrizione compresa, Salvi si sia attestato su posizione interlocutoria, e nonostante abbia messo “la macchina della giustizia” al di sopra di tutto, come scriveva tempo fa sul Riformista Piero Sansonetti, che di Salvi è stato amico ai tempi dell’Università: “Se di sicurezza si parla”, ha detto però Salvi, a valle delle risse politiche sui casi Diciotti e Gregoretti, “è bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano… Mentre da anni sono chiusi i canali di ingresso legali e ormai non viene nemmeno più redatto nei tempi prescritti il decreto flussi, la cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento (sanitario, di insegnamento dell’italiano, di formazione professionale, di alloggio) creeranno tra breve un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società, rese cioè clandestine…”. E’ un rivoluzionario, Salvi? Non proprio. E ha ottenuto in passato consensi trasversali, su altri temi, anche nell’area davighiana. Fatto sta che il pg della Cassazione, pugliese di Lecce, in magistratura dal 1979, fratello dell’ex ministro e senatore Pds-Ds Cesare Salvi, è un esponente di Magistratura Democratica, ex pretore a Monza, ex pm a Roma poi nominato, nel 2011, alla guida della Procura di Catania, dove è rimasto fino al 2015. La sua carriera, visto anche l’impegno nel pool antiterrorismo a Roma e nella Direzione distrettuale antimafia, avrebbe potuto essere, com’è stato per altri magistrati noti alle cronache, un trampolino di lancio per l’attività politica. Non è stato così, nonostante la delicatezza dei temi oggetto delle inchieste di cui si è occupato, dall’omicidio Pecorelli alla strage di Ustica all’omicidio D’Antona, passando per Gladio fino ad arrivare, in tempi più recenti, ai naufragi dei migranti nel canale di Sicilia. “Salvi non ha mai amato la pubblicità, tantomeno le fughe di notizie. Eppure è stato protagonista di processi importantissimi”, scrive Sansonetti. Fatto sta che, anche se in questo caso sul fronte anti-sovranismo securitario, Salvi oggi è uscito dal riserbo tradizionale del giudice.

 

Ma sul tema di civiltà giuridica posto dallo spirito del tempo e dalla riforma del Guardasigilli grillino, e sulla difesa del processo giusto, un processo che non diventi pena prima che la pena venga comminata, sono le frasi di Margherita Cassano, presidente della Corte d’Appello di Firenze, a segnare il confine tra il silenzio prima possibile e il silenzio oggi impossibile, visto il rischio troppo alto di scivolare verso il processo infinito: “L’inevitabile dilatazione dei tempi del processo, conseguenti alla sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, mal si concilia”, ha detto infatti Cassano, citando l’articolo 111 della Costituzione, “con un giusto processo incentrato sul metodo dialettico nella formazione della prova”. Né “possono essere sottaciute le drammatiche conseguenze sociali provocate dalla pendenza per lunghissimi anni di un processo penale che rende l’uomo unicamente un imputato, in palese contrasto con la presunzione costituzionale di non colpevolezza”. “Unicamente un imputato”: la donna che pronuncia questa frase è il magistrato lucano che nel 2019 si schierò contro Matteo Salvini nella polemica sui giudici “fan dell’accoglienza”. Figlia del magistrato che presiedeva la Corte che condannò uno dei fondatori delle Brigate Rosse, Renato Curcio, Margherita Cassano è coautrice, con Paolo Borgna, di un libro uscito nel lontano 1997, ma dal titolo al tempo stesso rievocativo di un’epoca (dopo gli anni di Mani Pulite) e profetico (epoca populista-sovranista): “Il giudice e il Principe. Magistratura e potere politico in Italia”. 


La Trimurti che ispira Bonafede (Davigo-Di Matteo-Ardita) e la preoccupazione di Giovanni Mammone (Cassazione)


 

Nel 2016, appena insediata alla presidenza della Corte d’Appello, Cassano aveva parlato della materia di cui il populismo giuridico si nutre, e cioè dei processi mediatici che, “oltre ad alimentare una morbosa ed esasperata attenzione verso i fatti di cronaca più clamorosi, determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale, producono un’innegabile assuefazione emotiva con conseguente annullamento di ogni forma di pietas, che pure è uno dei pilastri della convivenza civile. Non contribuiscono alla comprensione delle problematiche umani e sociali sottese ai vari accadimenti, calpestano la presunzione costituzionale di non colpevolezza creando dei veri e propri ‘mostri mediatici’ vanificano il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’articolo 2 della Costituzione”. Temi riecheggiati qualche settimana fa, durante un convegno sul processo mediatico, nell’intervento di Giovanni Melillo, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, già sostituto procuratore nazionale Antimafia con deleghe al coordinamento nazionale delle indagini in materia di traffico di stupefacenti e di riciclaggio nonché capo di Gabinetto del ministro della Giustizia nel 2014, quando ministro era Andrea Orlando (governo Renzi): la comunicazione è terreno accidentato, ha detto Melillo, parlando di “lato oscuro” del processo, e di “tensione” che carica irragionevolmente il terreno su cui si muovono gli inquirenti in alcune indagini, fino alla produzione di “falsi scoop” (e però, dice Melillo, non accade mai quello che è accaduto nel 1981 negli Stati Uniti, quando il Washington Post ha chiesto scusa, letteralmente, per un falso scoop pubblicato tempo addietro).

 

Processo mediatico e processo “infinito” vanno a cadere, oggi, sul tema-chiave della prescrizione, tanto che all’apertura dell’anno giudiziario, sempre a Napoli, il procuratore generale aggiunto Luigi Riello non ha lesinato critiche alla riforma Bonafede: “Chi ha parlato di ‘fine processo mai’, coglie nel segno. La legge che blocca il decorso della prescrizione da sola creerà un esercito di eterni giudicabili”. Calata “nella comatosa situazione italiana”, la riforma, dice Riello, già consigliere del Csm e in passato segretario della corrente Unicost, può tramutarsi in “ergastolo processuale” o in “inizio pena mai”. Anche in questo caso chi si esprime contro la riforma è un giudice esperto, in magistratura dal 1979, ma non un habitué della ribalta mediatico-giudiziaria, anche se in passato il circo mediatico lo ha lambito, essendosi Riello occupato dell’omicidio di Meredith Kercher. 


Giudici contro la politica della paura (Giovanni Salvi), e giudici garantisti sul processo mediatico (Giovanni Melillo) 


E quando si sale verso nord, a Milano, si trova il procuratore generale della Corte d’Appello Roberto Alfonso, già capo della Procura Antimafia di Bologna dal 2010 al 2015, e coordinatore delle indagini su una delle più importanti operazioni antimafia della Dda emiliana. Alfonso è convinto che “la sospensione del corso della prescrizione non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti e presenta rischi di incostituzionalità. La norma introdotta consente al processo di giungere all’accertamento del fatto e all’eventuale condanna dell’imputato, e ciò anche a tutela della persona offesa, ma non si può sottacere che essa viola l’articolo 111 della Costituzione, con il quale confligge, quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. Anche a Torino la riforma Bonafede trova un muro davanti a sé: “La prescrizione è una garanzia per i cittadini e assicura che non si possa essere imputati a vita e vittime a vita”, dice il procuratore generale Francesco Enrico Saluzzo. Ai tempi dell’inchiesta che aveva travolto parte dell’Anm, l’estate scorsa, Saluzzo aveva scritto un a lettera aperta, sottoscritta anche da altri magistrati, a Magistratura indipendente: “E’ inaccettabile”, scriveva, “che coloro che rivestono cariche istituzionali intrattengano interlocuzioni improprie per orientare deliberazioni che hanno una sede costituzionalmente definita e trovano la loro naturale regolamentazione nella normativa primaria e secondaria”, chiedendo “l’immediata convocazione di un congresso straordinario di Magistratura Indipendente”, perché “per prima inverta la rotta”, e “un congresso nazionale straordinario” della Associazione nazionale magistrati. Ma per quanti distinguo corrano tra le varie posizioni, e per quanto le cosiddette correnti possano scontrarsi, la comune opposizione alla riforma Bonafede, e le preoccupazioni sulla giustizia mediatizzata, rendono simili i diversi (giudici diversi). E la barriera degli Ermellini si compatta.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.