Contro il codice Rocco-Davigo
La supremazia della mano pubblica, la presunzione di colpevolezza e la negazione del diritto di difesa hanno una storia lunga e illiberale. Dai processi agli untori al fascismo
Si può essere “né garantisti, né giustizialisti”? Certo che no. Se poi si è giuristi, è come bestemmiare, o almeno dire parole senza senso. Al netto degli inevitabili eccessi propri di ogni semplificazione semantica, la contrapposizione tra le due culture – del primato delle garanzie e dei diritti individuali quella “garantista”, del primato della potestà punitiva dello Stato quella “giustizialista” – segna ed attraversa tutta la storia del pensiero giuridico moderno.
Sarebbe anzi il caso di riflettere, e di riflettere bene, sul ripetersi nei secoli di tale conflitto. Perché basterà ripercorrerlo anche sommariamente per ritrovare nelle parole d’ordine della polemica odierna quelle che, identiche, hanno segnato profondamente pagine drammatiche ed oscure della storia dell’uomo. Non c’è infatti nulla di nuovo, ma proprio nulla, nei temi connotativi del contrasto politico, culturale o anche solo polemico di questi nostri tempi tra garantismo e giustizialismo.
Dal diritto tardo medioevale all’età dei lumi, dai codici liberali del 1865 e del 1913 al codice fascista del 1930, dalla Assemblea Costituente al Codice Vassalli del 1988, i grandi temi intorno ai quali la società umana ha organizzato e regolato il grande, cruciale scontro tra la potestà punitiva dello Stato e i diritti di libertà della persona si sono ripetuti con implacabile puntualità, segnando ora le epoche buie e violente della supremazia illimitata della mano pubblica, ora il riscatto luminoso dei diritti e della libertà della persona. O forse qualcuno ha seriamente pensato, per capirci, che un Piercamillo Davigo esprima un pensiero come un altro, da iscriversi nella quotidianità di una contingente ed aspra polemica politica? Nelle frenetiche esternazioni di questo magistrato-simbolo, come nella rozza vulgata del populismo giustizialista pentastellato e della stampa che la fiancheggia, la istiga e la diffonde, c’è la ripetizione, inconsapevole o meno ma perfettamente millimetrica, di contrasti secolari e drammatici, banalizzare i quali è un gravissimo atto di irresponsabilità intellettuale.
Nelle esternazioni del magistrato-simbolo e nella rozza vulgata del populismo c’è la ripetizione di contrasti secolari
Siamo per la presunzione di innocenza sì o no? Siamo per la intangibilità non solo del diritto di difesa, ma del ruolo e della figura sociale del difensore, sì o no? Siamo per il processo inquisitorio o semi-inquisitorio, o per il processo accusatorio? La funzione principale e fondativa del processo penale è quella di accertare la responsabilità di un fatto criminale, o quella di dare soddisfazione alle aspettative riparatorie della vittima, o persino quella di farsi strumento di “lotta” a fenomeni sociali? Il silenzio è un diritto fondamentale dell’imputato o un sintomo di colpevolezza? Le esigenze di celerità del giudizio prevalgono o soccombono rispetto all’esercizio pieno ed incondizionato del diritto di difesa dell’imputato?
Nel processo inquisitorio seicentesco il giudice è il sovrano dei tempi e dei modi del processo. Indaga, arresta i sospettati senza renderne ragione a nessuno, ascolta testimoni senza regole e limiti, infine formula l’accusa in segreto e deposita gli atti all’imputato, che potrà esaminarli e predisporre la propria difesa in un termine non superiore ad otto giorni. Nel processo agli untori Piazza e Mora, di manzoniana memoria, il termine a difesa fu di due giorni, e Piazza scongiurò il Giudice di trovargli un difensore perché nessun avvocato voleva assisterlo. L’idea della difesa come incidente mal tollerato del processo, da piegare alle esigenze superiori della Giustizia e della celerità del processo, ha radici lontane.
Il Giusnaturalismo afferma il diritto di difesa come diritto naturale della persona, ma inteso come diritto di difendersi, di rappresentare la propria innocenza, non come diritto a una difesa tecnica. L’avvocato è rappresentato come un mercenario, perciò stesso inattendibile, socialmente deprecabile. Nemmeno la rivoluzione francese, che abolisce gli ordini professionali, consentirà una difesa tecnica, affidata a giovani studenti istruiti ma non giuristi.
Nel Lombardo-Veneto il Codice Austriaco del 1803 non prevede la figura dell’avvocato, perché la difesa dell’innocenza è affidata alla legge e garantita dal Giudice. Saranno i codici liberali del 1865 e del 1913 a restituire centralità e dignità alla funzione processuale e sociale dell’avvocato; ma ci penserà il codice fascista del 1930 a rimettere brutalmente in discussione il diritto di difesa e la funzione del difensore, e prima ancora il principio di presunzione di innocenza.
Ecco: populisti e giustizialisti nostrani, adusi a seminare sarcasmo verso la figura dell’avvocato e insofferenza per il diritto di difesa, il cui esercizio – pur astrattamente rispettato – è puntualmente rappresentato come una furbesca e mercenaria congerie di cavillosi pretesti dilatori che producono la paralisi del processo e della Giustizia, farebbero bene a studiare gli atti preparatori del Codice fascista che porta il nome di Rocco, ma che fu scritto per la gran parte da Vincenzo Manzini. Il quale descriveva l’avvocato difensore come “un pericoloso faccendiere perché è pronto a tradire il suo mandato di patrocinatore del diritto per diventare protettore della delinquenza”.
La funzione principale del processo penale è di accertare una responsabilità o dare soddisfazione alle aspettative della vittima?
Lo stesso giurista fascista teorizzava che il reo confesso non avesse diritto al difensore, una inutile perdita di tempo, al pari degli imputati “raggiunti da testimonianze attendibili e degne di fede”.
Rocco e Manzini fondarono il modello processuale sulla eliminazione del principio di presunzione di non colpevolezza, e qui viene in mente Travaglio quando sarcasticamente e quasi rabbiosamente ama ricordare che una persona sorpresa in flagranza di stupro “in questo paese è assistito dalla presunzione di innocenza”. La quale veniva così valutata dal fascista Vincenzo Manzini: “Nulla di più goffamente paradossale, irrazionale e incongruente. Se si deve presumere l’innocenza dell’imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?”.
E quando il presidente Davigo lancia i suoi strali contro un garantismo vissuto come una catastrofica debolezza del sistema penale, come non pensare che il ministro fascista Rocco – come ci ricorda la prof.ssa Loredana Garlati in un suo splendido saggio – “liquidava la presunzione di innocenza come frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso che tanto aveva indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”? E come non ricordare che pochi anni dopo (1939) Giuseppe Maggiore – un altro giurista di regime – arriverà persino ad invocare l’abbandono dell’in dubio pro reo a favore dell’in dubio pro republica?
Fu la nostra Costituzione a ripristinare (non senza fatica, come testimonia il complesso dibattito sul diritto di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza) quei fondamentali principi di libertà intesi come irrinunciabili connotati fondativi del nuovo patto sociale democratico.
Dunque è bene avere sempre chiaro quali siano le stimmate storiche, culturali e politiche di tutto quell’armamentario argomentativo che da decenni viene riproposto con la forza dei monologhi assertivi quotidianamente propinati alla pubblica opinione: il diritto di difesa come fastidioso ostacolo all’ordinato e rapido corso della giustizia, la prescrizione come privilegio dei potenti, l’avvocato come fiancheggiatore dei propri assistiti e sabotatore del processo con i famosi artifizi dilatori. Qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano un tale Barbacetto, nel tentativo (vano) di elencare queste tecniche dilatorie (che non esistono), alla fine tira fuori “la richiesta di interrogatorio dell’imputato”. Vale a dire, l’atto supremo, addirittura simbolico del diritto di ciascuno di noi almeno di poter dare la propria versione dei fatti. Eccola, la linea diritta tracciata dalla storia: dai processi agli untori, ai codici fascisti di Manzini e Rocco, ai Barbacetto (si parva licet).
Nessuno inventa nulla, dunque: giustizialismo e garantismo, fatte le debite storicizzazioni, si scontrano da secoli sui pochi, medesimi e cruciali principi intorno ai quali si ripete l’eterno meccanismo del diritto e del processo penale. Le parole, le idee, starei per dire finanche i riflessi sono gli stessi, sono noti e conosciuti. Anche qui, non c’è lodo che tenga. O di qua, o di là.
Noi restiamo convintamente di qua, consapevoli che il “garantismo” non è una scelta possibile ma l’unico modello di giustizia penale accolto dalla Costituzione.