Contro la barbarie delle intercettazioni indiscriminate nei confronti dei detenuti
Uno dei due americani accusati dell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega è stato intercettato mentre parlava col suo avvocato, e la trascrizione del dialogo manomessa. Appunti per una riforma garantista
Il Conte-bis è l’ennesimo governo che ha rischiato la crisi sulla giustizia: complice il garantismo di Renzi, si è riaperto un dibattito in cui quasi nessuno sembra però aver speso una parola per condannare la deprecabile prassi di intercettare persone detenute, per di più spesso solo in custodia cautelare, nella speranza di inchiodarle ad una dichiarazione autoincriminante.
In un’ottica di bilanciamento degli interessi coinvolti, appare accettabile ammettere l’utilizzabilità delle confessioni rivolte a compagni di cella: era capitato a Carminati, lo vediamo nei telefilm americani. In questi casi l’indagato non ha ragionevoli aspettative di riservatezza: se parla, sa che l’interlocutore potrebbe tranquillamente riferire, per cui l’intercettazione non comprime i suoi diritti.
Da tempo, però, in Italia è invalsa una prassi che va ben oltre: intercettare le conversazioni del detenuto con i propri familiari. Era stato eclatante il caso di Bossetti, il cui colloquio in carcere con la moglie finì spiattellato sui media. Qui la situazione è molto diversa: è ragionevole che un detenuto, che già patisce la condizione di restrizione, abbassi la guardia e faccia affidamento sulla riservatezza di quanto va dicendo a coniuge o familiari. Eppure, la legge consente tale pratica senza restrizioni, prevedendo garanzie solo per la corrispondenza.
Come se non bastasse, siamo ora giunti al livello ultimo di questa prassi inquisitoria, ovvero l’intercettazione dei colloqui con il difensore. L’utilizzazione di queste registrazioni è sì vietata dal codice di procedura penale, come parte imprescindibile della tutela del diritto di difesa. Purtroppo però, la Cassazione due anni fa ha ristretto in parte la portata del divieto, e comunque questo non sembra sufficiente a impedire che finiscano col giocare un ruolo centrale nella costruzione di un’accusa le intercettazioni tra un arrestato e il suo legale.
È il caso della vicenda riferita ieri dal Corriere, che ha rivelato che uno dei due americani accusati dell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega nel luglio scorso, è stato appunto intercettato mentre parlava col suo avvocato americano. E questa conversazione è stata alla base delle mosse successive degli inquirenti.
La notizia ha del clamoroso, perché gli avvocati del ragazzo hanno scoperto che la trascrizione è stata addirittura fatta in modo parziale e gravemente infedele rispetto all’originale inglese, facendo quasi emergere una confessione mai pronunciata. Il problema rimane anche in casi meno limite, ma certamente questa violazione dei diritti dell’accusato dimostra almeno due cose da tenere molto ferme nel dibattito di cui sopra. La prima è che gli avvocati non sono i fastidiosi ostacoli al compimento della giustizia dipinti dal Davigo-pensiero.
La seconda è che, sempre con buona pace del consigliere Davigo, urge difendere il principio dell’assoggettamento delle prove ad un contraddittorio pieno in dibattimento. Ed è centrale che tale contraddittorio investa anche le prove precostituite come le dichiarazioni intercettate, non solo quelle che si formano in dibattimento.
Se la costituzione prevede questa garanzia, essa non sembra però estendersi, anche secondo i giudici europei, alle conversazioni con i familiari, e non appare un argine invalicabile perfino per quelle con i difensori. Allora, sarebbe necessario che, dal momento che lo stesso Renzi ha rimesso in agenda il tema delle riforme, il Parlamento trovasse il tempo per fare anche un piccolo ma significativo balzo di civiltà, andando oltre la soglia minima richiesta dagli standard internazionali, e imponendo agli inquirenti di rinunciare ad uno strumento così invasivo della riservatezza di persone per definizione deboli come i detenuti. Perché in carcere ci finiscono anche parecchi innocenti e non solo non è fisiologico, come pensa Gratteri, ma è bene che essi abbiano la serenità di rivolgersi ai familiari sapendo che le loro parole non potranno mai essere utilizzate contro di loro, anche soltanto indirettamente.
L'editoriale del direttore