La vita da eterno imputato di Mannino. Chissà che ne pensa Davigo
Altro passaggio in Cassazione per l'ex ministro nell'ambito del processo sulla Trattativa. Il rito abbreviato più lungo di sempre
Calogero Mannino si consoli. Quando la sua vicenda giudiziaria sarà chiusa (appunto, quando?) potrà vantarsi di avere stabilito più di un primato. A quello di eterno imputato e protagonista di un abbreviato infinito, si aggiunge il record di presenze in Cassazione. L'ex ministro democristiano dovrà presentarsi per la terza volta davanti ai supremi giudici dopo che la procura generale di Palermo ha impugnato la sua assoluzione nel processo sulla trattativa stato-mafia.
Mannino “non ha commesso il fatto”, così ha stabilito il giudice e così ha ribadito il collegio di secondo grado. Non fu lui a dare il via, temendo di essere ammazzato, al patto sporco fra mafiosi e rappresentanti delle istituzioni. Più che un'assoluzione è stata una picconata all'impianto trattativista. Nel troncone principale del processo, quello chiuso con pesanti condanne in Corte di assise, si dà ampio credito alla ricostruzione dell'accusa. Al contrario nello stralcio di Mannino, che ha scelto il rito abbreviato e per questo viene giudicato da solo, si bollano le accuse come “assurdi logici”, “aporie” e “illazioni”. Parole che rappresentano uno scoglio insormontabile nel giudizio di appello in corso nel troncone principale che si è chiuso in Corte di assise con otto pesanti condanne, a cominciare da quelle inflitte agli ufficiali dell'arma dei carabinieri.
Da una parte Mannino è l'anima nera di una stagione scellerata, dall'altra è l'uomo dell'impegno antimafia. Ed è proprio per questo che volevano ammazzarlo, altro che trattativa per salvarsi la pelle. La Cassazione dovrà valutare se la sentenza che ha l'ha mandato assolto sia o meno conforme alla legge. Non può entrare nel fatto e si ragiona solo sul diritto.
Comunque finirà, una cosa è sin d'ora inconfutabile. La durata del processo a Mannino fa a pugni con la definizione di “giudizio abbreviato”. È iniziato nel 2013, otto anni fa. La lancetta del tempo va riportata ancora più indietro negli anni se si considera il processo nel quale Mannino si è dovuto difendere dall'accusa di mafia. Da un trentennio circa, o giù di lì, l'ex politico fa il mestiere dell'imputato. Ed è stato sempre assolto.
Il caso Mannino andrebbe studiato nell'Italia che affronta – da sempre – il tema della riforma della giustizia. Di più, andrebbe messo nero su bianco e distribuito in giro per le procure per frenare una certa partigianeria colpevolista. Sarebbe curioso sapere cosa ne pensa, ad esempio, il presidente della II Sezione Penale presso la Corte suprema di Cassazione e membro togato del Consiglio superiore della magistratura, Piercamillo Davigo, che per curare la giustizia malata vedrebbe bene la ricetta di scoraggiare i ricorsi in appello. Come? Rendendo, ad esempio, “responsabile in solido l’avvocato. Così, quando il cliente gli chiede di ricorrere, gli fa depositare fino a 6 mila euro e poi, in caso di inammissibilità del ricorso, verserà lui la somma al posto del cliente”. O ancora: “Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può. Il che incentiva tutti a provarci”. Passi pure la ricetta di Davigo. La domanda sorge spontanea: e se a fare ricorso contro due sentenze di assoluzione sono gli uffici della procura?