Sulla giustizia il Pd non molla
Il Partito democratico non ha mai considerato di per sé esaustivo o sufficiente il compromesso sulla prescrizione. E continuerà a lavorare, con equilibrio, per raggiungere risultati apprezzabili sul funzionamento del nostro sistema giudiziario
Non c’è troppo da stupirsi che il tema della giustizia costituisca un tema di forte contrapposizione e fibrillazione politica. Da sempre il rapporto tra lo stato e il cittadino, che sul terreno della pretesa punitiva trova la sua frizione maggiore, rappresenta uno snodo decisivo nell’idea della società che le forze politiche intendono rappresentare.
Così è anche oggi, tanto più in un’epoca nella quale la nuova frontiera lanciata dalla sfida populista si colloca proprio sulla concezione dello stato di diritto.
Quando quest’estate il Partito democratico ha colto l’occasione imprevista e inaspettata di formare un nuovo governo che arrestasse la deriva sovranista e antieuropea, era perfettamente consapevole delle difficoltà che si sarebbero prospettate nel condividere un’alleanza con un movimento fino allora avversario, ma era anche ben motivato dai rischi che il nuovo governo intendeva scongiurare.
Anche su un terreno assai delicato come quello della giustizia.
La destra populista allora al potere e oggi ancora alle porte, ma in quel momento sempre più arrogante e minacciosa era, ed è, quella dello slogan per il quale “i delinquenti devono marcire in galera”, per la quale, come disse in più occasioni il leader della Lega, occorre rivedere in termini restrittivi i benefici penitenziari, quella che si oppose allo sfinimento e affossò appena ne ebbe l’opportunità la riforma dell’ordinamento penitenziario.
Una destra di impronta ultraconservatrice e securitaria, con una visione carcerocentrica della pena, secondo il modello americano che non a caso ha una popolazione carceraria oltre sette volte più alta di quella italiana, contraria ad ogni concezione moderna della pena e della sicurezza.
E in radicale antitesi al concetto di giustizia conciliativa, umanizzata e riparativa espressa in modo così convincente ed esaustivo dalla presidente della corte costituzionale Marta Cartabia in una recente intervista.
Ma la destra italiana e sovranista è anche quella che, per eccitare l’istinto alla vendetta serpeggiante nell’opinione pubblica, non si è fatta scrupolo di solidarizzare con un uomo condannato perché, dopo aver sorpreso un ladro nel suo stabilimento, lo immobilizzò, lo percosse, lo fece inginocchiare mani dietro la nuca, e gli sparò a bruciapelo.
Secondo un modello di giustizia che asseconda le pulsioni di vendetta e le punizioni sommarie, antitetiche allo stato di diritto nel quale il monopolio della forza appartiene al potere pubblico.
Ancora, la destra italiana odierna è quella che si è messa di traverso all’approvazione della legge contro la tortura, finalmente approvata dopo una lunghissima gestazione nella scorsa legislatura, e che oggi, come ha twittato Giorgia Meloni, la destra si propone di abrogare perché impedirebbe alle forze di polizia “di fare il proprio lavoro”.
Voce dal sen fuggita, che tradisce una visione pericolosa del rapporto tra stato e cittadini, nel quale alla sicurezza è lecito sacrificare ogni diritto, ogni garanzia, e che dovrebbe fare inorridire qualunque autentico liberale.
Ma la destra italiana è anche quella secondo la quale, in nome del consenso, a nome del popolo, non deve essere consentito di processare un ministro accusato di aver commesso un delitto contro la persona e le libertà fondamentali, un sequestro aggravato.
Un precedente che, se avallato, aprirebbe la strada alla giustificazione di qualunque illecito, anche dei più gravi, da parte dell’esecutivo, come non è difficile comprendere.
Anche qui, una concezione lesiva dei più elementari principi di uno stato di diritto, che mette in discussione la separazione dei poteri, e che tradisce la visione populista del diritto e della giustizia comune alle destre sovraniste odierne.
Una concezione non dissimile da quella al potere in Polonia, per fare un esempio, ove in questi giorni giudici e avvocati stanno protestando insieme contro una legge che prevede sanzioni disciplinari ai giudici che disapplicano o mettono in discussione le riforme del governo. Una concezione tipicamente populista della giustizia, per cui il diritto deve uniformarsi alla volontà popolare, in totale spregio, ancora una volta, a una concezione autenticamente liberale dello stato di diritto.
Questa è l’idea della giustizia che si sta affacciando con prepotenza in Italia, al traino della destra sovranista, populista e antieuropea largamente dominante.
E alla quale, sia detto con chiarezza, non oppone alcun argine quella parte della destra, oggi nettamente minoritaria, che si è autoassegnata del tutto gratuitamente la patente di garantista.
Una destra afona, che su tutte le questioni sopra delineate è stata complice silenziosa, quando non apertamente connivente.
Una destra garantista quando le conviene, pronta a stracciarsi le vesti quando si aumentano le pene per corruzione o evasione fiscale, ma sempre in prima fila ad applaudire quando si aumentano le sanzioni per reati di strada o legati alla droga. Garantista coi forti, giustizialista coi deboli.
In questo quadro politico, alla luce di questi rischi, il Partito democratico ha deciso di esercitare la propria responsabilità, anche sui temi della giustizia, e anche nel difficile e complicato rapporto con un movimento che su queste questioni ha idee molto più sbilanciate sul diritto alla punizione dello stato, che non sulle garanzie per i cittadini.
E lo ha fatto cercando le soluzioni di equilibrio più avanzate possibili, senza alimentare strappi che avvicinerebbero, anziché tenere lontana, la deriva della giustizia populista.
Anche sulla prescrizione, ove si è trovata una mediazione certo non esaltante - quella della distinzione tra condannati e assolti in primo grado - ma che comunque riduce l’impatto della riforma Bonafede, e si apre a ulteriori modifiche all’esito del monitoraggio che il ministro affiderà ad una commissione di esperti formata da avvocati, magistrati e professori universitari. Una soluzione che autorevoli giuristi hanno criticato, ma molti altri hanno giudicato apprezzabile, e che comunque il Partito democratico non ha mai considerato di per sé esaustiva o sufficiente.
Perché siamo consapevoli che solo con una riforma ambiziosa ed efficace del processo penale che ne riduca i tempi a livelli civili si può risolvere l’obiettivo cortocircuito che si è creato nella giustizia penale in Italia: ove la prescrizione è oggi l’unico strumento che contribuisce ad accelerare i processi, peraltro senza conseguire in modo soddisfacente il risultato, visto che i processi durano comunque in modo inaccettabile.
Così che oggi abbiamo insieme processi infiniti, e una prescrizione che scatta come una tagliola vanificando oltre un quarto dei processi di appello, una inaccettabile sconfitta dello stato che contrasta col comune senso di giustizia.
Per questo abbiamo contribuito a elaborare una ipotesi di riforma che deve contribuire a raggiungere quel risultato, contenuta nel disegno di legge approvato la scorsa settimana in consiglio dei ministri, che si appresta ad iniziare il suo corso parlamentare. Una riforma che ha obiettivi molto chiari: modifica delle notifiche che oggi paralizzano gli uffici, tempi certi e controllabili nelle indagini preliminari, potenziamento dei riti alternativi, responsabilizzazione delle procure nella scelte dei reati da perseguire, introduzione di termini di fase, con tempi certi soprattutto per i processi di appello, potenziamento degli organici.
Obiettivi apprezzabili, io credo, che sono stati declinati in un articolato normativo non blindato o immodificabile, ma anzi aperto alla discussione di tutti gli operatori del diritto.
Qui stiamo, dunque.
Il Partito democratico continuerà a lavorare, fino a quando possibile, e con equilibrio, per raggiungere risultati apprezzabili sul funzionamento della nostra giustizia, sapendo di dover trovare le soluzioni possibili nella interlocuzione con gli alleati di governo, ed esercitando fino in fondo la propria funzione, che è quella di agire e muoversi all’insegna di una rigorosa etica della responsabilità.
È da anni che la storia del paese ci ha assegnato questo ruolo, quello di farci carico dei momenti di difficoltà del paese, di tenere per evitare derive e fare da argine alle ricorrenti pulsioni populiste: il ruolo di partito della responsabilità nazionale.
Questo continueremo a fare, anche sulla giustizia, sapendo bene cosa bussa alla porta.
Alfredo Bazoli, deputato del Partito democratico