Perché il rischio sanitario in carcere deve preoccupare tutti
Rivolte ovunque tra ieri e domenica, dopo l'annuncio del decreto. Le conseguenze sulle "fabbriche di handicap"
Roma. Nel 1777 John Howard, primo riformatore del sistema penitenziario in Europa, pubblicò un accurato rapporto dal titolo “The State of the Prisons” nel quale sottolineava la necessità di sostanziali miglioramenti su igiene e pulizia, la mancanza delle quali stava provocando molte morti nelle prigioni europee. “Le rivolte nelle carceri non sono difficili da comprendere”, dice al Foglio il filosofo del diritto Emilio Santoro, ordinario all’Università di Firenze: “Se c’è un posto sovraffollato con alta concentrazione di persone con problemi di deficit immunitari, malattie infettive e respiratorie quello è il carcere. Tutti sappiamo che un terzo dei detenuti è tossicodipendente, è malato di Aids, di tubercolosi o ha comunque problemi infettivi. Se il virus entra lì, fa una strage. Il carcere già di suo è un lazzaretto, quindi i detenuti sono oggi terrorizzati perché sanno di poter essere condannati a morte. E noi, come al solito, ci siamo scordati di loro. Perché sono cittadini di serie C”.
Al 30 aprile 2019, riferisce una relazione di Antigone, i detenuti presenti sono 60.439, quasi diecimila in più dei 50.511 posti letto ufficialmente disponibili, per un tasso di sovraffollamento ufficiale che sfiora il 120 per cento. Insomma, si vive male già in condizioni ordinarie. Negli ultimi due giorni il panico ha già raggiunto vari istituti penitenziari, dopo la pubblicazione del decreto che sospende i colloqui fino al 31 maggio e introduce la possibilità di fare telefonate aggiuntive e utilizzare la piattaforma Skype, nonché dà la possibilità ai magistrati di sorveglianza di sospendere i permessi premio e la semilibertà.
A Modena si contano sei morti dopo le rivolte di domenica, a Foggia sono evasi a decine, a San Vittore i detenuti sono saliti sul tetto. Rivolte anche a Prato e Palermo, insomma ovunque. Il 2020 assomiglia al millesettecento dunque? Non c’era bisogno del coronavirus per scoprirlo, purtroppo. Sono anni che meritorie associazioni che si occupano di diritti dei detenuti e dello stato delle prigioni italiane (L’Altro diritto, Antigone, per non parlare naturalmente dei Radicali) denunciano le condizioni di vita di chi sta in prigione. Il carcere ha naturalmente un effetto patogeno ed è, per citare un libro del 1989, “Il carcere immateriale”, di Ermanna Gallo e Vincenzo Ruggiero, una “fabbrica di handicap”. Figurarsi oggi con l’epidemia di coronavirus. A Rebibbia, ha spiegato l’assessorato alla Salute della Regione Lazio citando fonti del sindacato di polizia penitenziaria, si sono registrati gravi disordini e “alcuni reclusi avrebbero assaltato le infermerie”. Forse in cerca di sostanze. In carcere, dove anzitutto manca la libertà, tutto è importante, a partire dagli psicofarmaci con cui avviare floridi commerci.
“Il carcere già di suo è un lazzaretto, quindi i detenuti sono oggi terrorizzati perché sanno di poter essere condannati a morte. E noi, come al solito, ci siamo scordati di loro. Perché sono cittadini di serie C”, dice il filosofo del diritto Emilio Santoro. Il sovrannumero dei detenuti e i rischi in aumento
“L’emergenza sanitaria va gestita non solo con le misure indicate nel decreto ma anche con considerazioni speciali per un’area a rischio sanitario più elevato”, dice al Foglio Sofia Ciuffoletti, garante dei Detenuti di San Gimignano e direttrice de L’altro diritto. “Per garantire il principio di equivalenza delle cure, non puoi differenziare la tutela sanitaria della popolazione tra chi sta in carcere e chi sta fuori”, dice ancora Ciuffoletti. “Il carcere è un luogo chiuso che deve prevedere un approntamento sanitario diverso, che passa non solo dalle forniture di presidi igienici e sanitari di base, ma anche dalla spiegazione ai detenuti di quello che sta succedendo e di quali sono i rischi. Alcune carceri lo stanno facendo, altre no. Ma fare assembramenti nei teatri delle carceri senza rendersi conto del rischio che si incorre raccogliendo 300 persone tutte insieme è pericoloso. Il rischio sanitario è altissimo e non si è pensato ad approntare misure preventive nelle settimane scorse, organizzando un triage all’interno del carcere. In più il messaggio contenuto dal decreto è contraddittorio: da un lato si sollecita il magistrato di sorveglianza, in maniera non automatica, a fare ricorso alla detenzione domiciliare, dall’altra si vietano i permessi premio e la semilibertà per consentire il lavoro esterno”. Per i colloqui ora c’è Skype, osserva Ciuffoletti, ma “servirebbe una rete Internet fortissima. Pensiamo a Sollicciano, dove ci sono 800 detenuti”. Insomma, servirebbe una forte riorganizzazione. Come spiegano al Foglio alcune fonti mediche che lavorano in carcere, è importante che il detenuto possa fare terapia occupazionale. Ma se gli agenti sono costretti a fronteggiare le rivolte, non possono sorvegliare i laboratori interni, che con meno detenuti alla volta potrebbero lavorare di più, così la palestra e le altre attività.
Il sovraffollamento delle carceri, che per le sue conseguenze rappresenta una pena aggiuntiva, ha costretto l’amministrazione penitenziaria, osservano la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio Carcere UCPI, “ad emanare provvedimenti che, di fatto, abbandonano i detenuti nelle loro celle in totale solitudine. Sospesi i colloqui visivi con i familiari e i volontari, bloccati i permessi premio ed i lavori all’esterno, le già ridotte attività come il lavoro e la scuola sono chiuse. Non vi sono più rapporti con l’esterno e si resta soli dinanzi ad un televisore che di minuto in minuto comunica notizie sempre più allarmanti”. Certo non è facile gestire un’intera popolazione ristretta, “nel tentativo di tutelarla dal contagio e, allo stesso tempo, garantire la sicurezza all’interno degli istituti. Ma lo Stato deve assumersi le sue responsabilità anche verso i cittadini reclusi che non possono essere privati dei loro diritti, a causa dell’inefficienza di un sistema che pur ammettendo le sue colpe, non ha mai trovato rimedi per uscire da una storica urgenza, quella di rendere le carceri luoghi vivibili e in linea con i principi costituzionali e le norme vigenti. Un diritto dimenticato a cui i media dedicano pochissimo spazio. Solo ora che le carceri esplodono, sembrano rendersi conto della esistenza del problema”. Non è un caso, dicono ancora le Camere Penali, “che da giorni vengono diffusi servizi su ospedali e scuole e non anche per il destino di oltre 60.000 persone, che già prima dell’arrivo del Coronavirus vivevano una precaria situazione igienico-sanitaria e che, pertanto, sono maggiormente esposti al contagio”. In questo contesto, osserva Gennaro Migliore, ex sottosegretario alla Giustizia, “è completamente mancata l’azione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, protagonista solo delle circolari che hanno costituito la miccia che ha incendiato decine di istituti. Era da quarant’anni che non si vedeva uno scempio simile e il silenzio dell'autorità ministeriale è increscioso. Italia viva chiede una informativa immediata al ministro della Giustizia in parlamento e l’immediata rimozione del capo Dap, il dottor Francesco Basentini”.