Circola una metafora per descrivere lo stato degli italiani in guerra contro il virus maledetto: la reclusione. Non è abusata, perché è la prima volta che le generazioni successive alla seconda guerra mondiale si confrontano con l’orizzonte del coprifuoco. La pazzia di Dio, questa volta, non ha preso la forma delle trincee e degli aeroplani. Farà meno morti, ma non sappiamo quando concederà l’armistizio. C’è una condizione in queste ore che, più di tutte, accomuna liberi e detenuti. Non è il domicilio coatto, ma la perdita di controllo sulla propria vita, la dipendenza da altri. Vedere o non vedere un figlio, una madre e un padre o un amore non dipende più da noi. Allo stesso modo, la perdita della possibilità di decidere su sé stessi e sulla gestione dei pochi residui di libertà è la quintessenza della reclusione in carcere. I diritti nell’ordinamento penitenziario vivono attraverso le mediazioni dell’istituzione totale. Sentire un parente al telefono, ottenere una visita medica, acquistare beni di prima di necessità sono azioni che devono passare per una domanda del ristretto e attraverso una risposta dell’autorità.
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