Così si combatte il virus in prima linea. In carcere
La presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa: “La presenza e la disponibilità all’ascolto sono fattori importanti per chi è recluso dietro le sbarre. Bisogna uscire dall’idea che l’unica pena sia quella carceraria”
“Non ho mai interrotto la mia attività: vado in ufficio e in carcere, con ogni cautela del caso”, spiega al Foglio la presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano Giovanna Di Rosa. “Mi sembra che anche medici e infermieri continuino a lavorare, noi magistrati abbiamo adottato la formula del presidio per le urgenze, nei casi ordinari ci rechiamo in ufficio a orari differenziati per evitare la concentrazione. Ma io, per il mio ruolo istituzionale, ho il dovere di stare in ufficio dalla mattina alla sera, pure nei giorni di festa”.
Il direttore del Dap Basentini è stato criticato per non essersi recato in carceri dopo le rivolte. “La presenza e la disponibilità all’ascolto sono fattori importanti per chi è recluso dietro le sbarre”. Le rivolte dell’8 e 9 marzo hanno coinvolto 6mila detenuti, circa il 10 per cento del totale. “L’8 marzo mi trovavo a San Vittore quando sono partite le proteste con la distruzione degli spazi comuni. Eravamo andati lì con i rappresentanti di diversi reparti per spiegare le cautele sanitarie da adottare contro il rischio di contagio. Milano, com’è noto, si è mossa con due settimane d’anticipo rispetto al resto d’Italia: dal 21 febbraio abbiamo trasmesso le nuove misure stringenti da applicare, inclusa l’interruzione delle visite esterne. Abbiamo sensibilizzato operatori e detenuti per far comprendere loro i motivi e la portata del provvedimento”.
Ciò è accaduto in Lombardia ma non nel resto del paese dove il ministero della Giustizia, e il Dap, non avevano predisposto un piano preventivo. “Io conosco il contesto territoriale in cui opero: nel distretto milanese insistono 13 istituti penitenziari ma le proteste si sono registrate soltanto in tre carceri. L’8 marzo, in serata, ho visitato anche Opera dove ho assistito alla stessa scena: un nugolo di rivoltosi con punte di follia e poi tutti gli altri detenuti che osservavano silenti, anzi si dissociavano. Nel caso milanese, si sono ribellati soprattutto i cosiddetti ‘nuovi giunti’, cioè le persone appena arrestate e perciò prive di un trattamento già avviato”.
Si è levata l’ipotesi di una regia esterna. “Non mi stupirei: la tempistica della rivolta nelle diverse carceri, a livello nazionale, è quantomeno sospetta. Sul piano delle richieste però è emersa l’assenza di una coesione collettiva”. Il ministero di via Arenula ha varato un provvedimento che estende gli arresti domiciliari ai detenuti con un residuo pena fino a diciotto mesi. “In realtà, il testo richiama la legge 199 che fu varata nel 2010 nel pieno dell’emergenza del sovraffollamento. Per chi ha da scontare fino a un massimo di sei mesi tale estensione è consentita anche in assenza del braccialetto elettronico, e a prescindere dal pericolo di fuga e di reiterazione del reato. Sono esclusi i detenuti condannati per mafia, terrorismo, corruzione, e a queste categorie il provvedimento aggiunge i maltrattamenti in famiglia e lo stalking. Esclusi anche i capi della rivolta e, in generale, quanti hanno ricevuto rapporti disciplinari in seguito alle sommosse”.
I giudici di sorveglianza potranno aprire le porte degli istituti penitenziari senza aspettare la relazione delle direzioni carcerarie. “Esatto, si stima che le nuove misure riguarderanno circa tremila unità in modo da ridurre la popolazione carceraria e attenuare il sovraffollamento. Ad oggi il coronavirus non circola nelle prigioni italiane ma, se malauguratamente non fosse più così, il contagio sarebbe presto fuori controllo”. Dieci detenuti risultano positivi al coronavirus. “Allo stato attuale, la situazione non desta allarme. Di fronte al pericolo di un virus con bassa letalità ma altamente contagioso, la capienza regolamentare delle carceri deve tener conto dell’effettiva capacità di isolamento, e oggi non disponiamo di un numero sufficiente di reparti a ciò finalizzati”.
Secondo il leader della Lega Matteo Salvini, l’automatismo mal si concilia con il principio della certezza della pena. “Bisogna uscire dall’idea che l’unica pena sia quella carceraria. Con l’estensione dei domiciliari la pena resta certa ma viene eseguita secondo modalità differenti. Lo stato non fa sconti, anzi l’esecuzione funziona come il gioco dell’oca: se violi le prescrizioni e ti comporti male, riparti dalla casella uno e ti viene revocato il tempo che hai scontato in misura alternativa. L’esecuzione della pena non può prescindere dalla tutela della salute della persona ristretta, un valore costituzionale che i magistrati di sorveglianza hanno il dovere istituzionale di preservare. La miscela di sovraffollamento e virus sarebbe letale”.