La doppia quarantena dei bambini in carcere
Già reclusi, incolpevoli, insieme alle madri, ora vivono da dietro le sbarre l'emergenza coronavirus. Sarebbe il caso di (pre)occuparsi di loro
Non ce lo ricordiamo mai, ma forse in questo strano tempo dilatato dell’emergenza sanitaria, alcune cose si ricordano: i bambini incolpevoli reclusi nelle patrie galere insieme alle madri. In Italia sono 59, secondo l’ultima rilevazione statistica del ministero della Giustizia. 59 bambini che si trovano, per la maggior parte, all’interno dei reparti “nido” (mai termine fu meno appropriato) di quegli istituti penitenziari sovraffollati a cui guardiamo, con molta indifferenza e con troppa ignavia in questi giorni, ma che rappresentano la sconfitta di uno stato che intenda tutelare la salute individuale come bene pubblico. La salute di tutte e di tutti, non dei meritevoli, non di chi paga le tasse, non dei cittadini, non di chi ha un valido permesso di soggiorno sul territorio italiano o la fedina “pulita”, ma di tutti. Indifendibili o indifesi che siano.
In questa segregazione diffusa che ormai ci contraddistingue, d’altronde, a qualcuno sembra che forse i bambini siano più sicuri in carcere. Il dramma sarebbe rispondere che sì, in alcuni casi è così. Lo è sicuramente per chi un domicilio non ce lo ha. Eppure in molte altre situazioni, la soluzione migliore (a normativa vigente) sarebbe l’attivazione di misure alternative alla detenzione nella considerazione che il carcere, che non è mai un luogo per bambini di pochi mesi o di 1, 2, 3 anni, a maggior ragione non lo può essere durante lo scoppio di una pandemia.
Così, d’altra parte, si esprime anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) che, nella sua guida sull’organizzazione, prevenzione e controllo del COVID-19 nelle carceri, espressamente richiama la necessità di prevedere misure non custodiali con preferenza per le madri con bambini in carcere e per le donne in gravidanza (e su questo i dati del ministero non ci aiutano a capire l’entità del fenomeno, dal momento che non le rilevano, con una sottostima del livello di sovraffollamento nei reparti cosiddetti “nido” delle carceri, dato che proprio in questi reparti le donne incinte sono allocate). La stessa Oms, poi, raccomanda un’attenzione particolare per l’interruzione delle visite dall’esterno, soprattutto degli operatori, proprio per l’impatto specifico e più che proporzionale che questa interruzione può avere su alcune categorie di persone recluse, tra cui proprio i bambini ristretti insieme ai genitori (in Italia, leggasi alle madri, dato che i padri detenuti non sono considerati genitori responsabili delle cure dei figli).
La vita dei bambini reclusi nelle patrie galere, infatti, è scandita anche e soprattutto dai momenti in cui operatori e operatrici delle associazioni li portano “fuori”. Ora il fuori non esiste più. Come per la società dei liberi, qualcuno dirà. No. In carcere non esiste il fuori, ma non esiste neanche il distanziamento sociale che lo accompagna come misura di tutela dal virus. In carcere si dorme insieme, si mangia insieme, si dipende necessariamente da qualcuno per qualsiasi esigenza di vita, anche solo per essere “aperti” (“apri” è una delle prime parole che un bambino impara in carcere) e così anche nei reparti “nido”. Se quindi le carceri non possono garantire, in questo momento, la salute delle persone ivi recluse, se non possono garantire la salute e il benessere (non solo fisico, attenzione, ma anche psichico, così come evolutivo) dei bambini e delle bambine reclusi nelle nostre galere, ecco, allora credo che sia giunto il tempo per pensare a una misura che li porti fuori, insieme al genitore (in Italia alla madre) che se ne occupa e da cui necessariamente dipendono, a vivere come tutte e tutti gli altri bambini in Italia la noia dell’isolamento in casa.
Non so se dai nostri privati isolamenti possa derivare una qualche ombra di solidarietà per questi bambini. Diciamo solo che spero di sì.
*centro interuniversitario Altrodiritto, Unifi
L'editoriale del direttore