A quasi nessuno importa se i detenuti possono mantenere le distanze
L’Oms ha stilato le regole per controllare la diffusione del contagio in carcere ma il sovraffollamento impedisce di osservarle
Roma. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato precise linee di comportamento per prevenire e controllare la diffusione del Covid-19 nelle carceri. Le mani devono essere lavate spesso con sapone e asciugate con asciugamani usa e getta; i detergenti per pulire le mani devono contenere almeno il 60 per cento di alcol; la distanza fisica dovrebbe essere osservata; se possibile, servono dispenser di sapone montati al muro. Queste e altre ottime linee guida per prevenire il contagio sono contenute in un documento dell’Oms del 15 marzo scorso.
Guardandole da una prospettiva italiana però verrebbe da ridere, se non fosse tutto così maledettamente drammatico. A partire dalla distanza di sicurezza da rispettare nelle carceri italiane, che già in condizioni normali hanno problemi di sovraffollamento. Figuriamoci ora. “E’ assolutamente necessario che siano adottati interventi urgenti e realmente incisivi” per affrontare l’emergenza nelle carceri italiane, dice la Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Interventi che “senza abdicare alla fondamentale funzione dello stato di garantire la sicurezza della collettività, tengano realmente conto del fatto che le carceri sono pericolosissimi luoghi di diffusione del contagio che espongono a rischio intere comunità, costituite dai detenuti e da tutti coloro che continuano a prestarvi servizio”.
D’altronde nelle carceri italiane, osserva provocatoriamente il filosofo del diritto Emilio Santoro, “il distanziamento è impossibile e due detenuti che dormono su un letto a castello sono in violazione della norma per cui Fontana vuole multare per 5.000 euro i cittadini”. Il punto è proprio questo: “Le linee guida dell’Oms se servono per limitare la libertà sono vangelo che non ci si può permettere di discutere, se comportano dare maggior libertà a qualcuno non ne parliamo neppure”, dice Santoro al Foglio. Meglio dimenticarsi dei detenuti insomma.
Il problema naturalmente non riguarda solo l’Italia. Giorni fa, secondo uno schema simile a quello del ‘Giorno della marmotta’, in Francia ci sono state proteste analoghe fra i detenuti dopo la comunicazione di misure più stringenti per il contenimento del coronavirus in carcere. In Svizzera, a Zurigo, il cantone ha deciso di utilizzare la prigione di Horgen – chiusa lo scorso dicembre – per trasferirvi i detenuti positivi al coronavirus che necessitano di cure. In Italia dall’inizio di questa emergenza sanitaria in carcere i problemi non mancano (e anche la trasparenza si fa fatica a trovarla). Ogni giorno se ne pone uno. Per esempio c’è la questione dei bambini in carcere.
Lo ricorda sull’edizione online del Foglio Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto: “Non ce lo ricordiamo mai ma forse in questo strano tempo dilatato dell’emergenza sanitaria, alcune cose si ricordano: i bambini incolpevoli reclusi nelle patrie galere insieme alle madri. In Italia sono 59, secondo l’ultima rilevazione statistica del Ministero della Giustizia. 59 bambini che si trovano, per la maggior parte, all’interno dei reparti ‘nido’ (mai termine fu meno appropriato) di quegli istituti penitenziari sovraffollati a cui guardiamo, con molta indifferenza e con troppa ignavia in questi giorni, ma che rappresentano la sconfitta di uno stato che intenda tutelare la salute individuale come bene pubblico. La salute di tutte e di tutti, non dei meritevoli, non di chi paga le tasse, non dei cittadini, non di chi ha un valido permesso di soggiorno sul territorio italiano o la fedina ‘pulita’, ma di tutti. Indifendibili o indifesi che siano”.
Tutte problematiche che il ministero della Giustizia dovrebbe affrontare quanto prima. A partire già oggi dal question time alla Camera, durante il quale il Pd chiederà al ministro Alfonso Bonafede “quali misure si intendano adottare per risolvere la drammatica situazione nelle carceri, sia a tutela della salute degli operatori che di quella dei detenuti”. Meglio tardi che mai.