Restituito il patrimonio a Ciancio. Un altro schiaffo all'antimafia chiodata
La Corte d'Appello di Catania ha assolto l’editore della Sicilia. Il suo giornale alla gogna da 15 anni
Chissà che cosa penserà di questa sentenza il ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, quello che ha abolito la prescrizione e ha dato la possibilità ai giudici di trasformare i processi in una persecuzione senza limiti di tempo. Chissà che cosa penseranno di questo verdetto i cosiddetti magistrati coraggiosi, quelli che confondono le prove con i sospetti e vedono, dietro ogni fortuna, losche collusioni con boss e picciotti di Cosa nostra, intrighi morbosi col potere politico e ogni sorta di nefandezza. Mario Ciancio, 87 anni, editore del quotidiano La Sicilia, uomo ricco di famiglia e azionista principale della Gazzetta del Mezzogiorno, con redazione a Bari e radicamento in tutta la Puglia, è stato assolto ieri dall’accusa infamante di avere favorito i più laidi padrini di Catania e della Sicilia orientale, di avere messo il suo giornale al servizio delle cosche, e di avere indirettamente favorito gli affari di un malacarne come Nitto Santapaola, l’uomo che aveva fiancheggiato da Catania la scalata sanguinaria di Totò Riina e dei corleonesi ai vertici della Cupola.
La sentenza è stata pronunciata ieri pomeriggio, dopo una lunga camera di consiglio, dalla Corte di appello presieduta da Dorotea Quartararo, e avvia alla chiusura un calvario che per quasi quindici anni tiene Mario Ciancio appeso al palo della gogna. Un palo piantato non in uno, ma in due processi: da un lato il procedimento penale per concorso esterno che si trascina ancora tra un giudice per le indagini preliminari che smentiva ogni ipotesi di colpevolezza e un capo dell’ufficio che ricorreva in Cassazione pur di affermare la tesi opposta; e dall’altro lato la misura di prevenzione, un provvedimento fondato su un indizio di “pericolosità sociale” con il quale il 20 settembre del 2018 la procura antimafia ha pensato bene di dare a Ciancio il colpo mortale: gli ha sequestrato La Sicilia, due televisioni private, i conti correnti e ogni altra partecipazione azionaria per un valore di oltre 150 milioni di euro. Di fatto abbatteva un impero. Ma incideva anche, e in malo modo, su un altro pilastro delle libertà civili: per la prima volta infatti l’antimafia metteva sotto sequestro un giornale, con tutti i suoi redattori; defenestrava un direttore e trasferiva la responsabilità editoriale nelle mani di due amministratori giudiziari. Ieri però, come si diceva, la Corte d’appello ha accolto il ricorso di Ciancio e ha demolito l’intero castello di carte e faldoni, di sospetti e teoremi. Ha affermato l’assoluta mancanza di pericolosità sociale; ha specificato che “non può ritenersi provata l’esistenza di alcun attivo e consapevole contributo da Ciancio in favore di Cosa nostra”; e ha disposto l’immediata restituzione, all’imprenditore e alla sua famiglia, di tutti i beni sequestrati. Uno schiaffo clamoroso per la lunga filiera di inquirenti e inquisitori che per oltre quindici anni hanno tentato con ogni mezzo di tenere in piedi la litania delle accuse. Ma anche per tutta quell’antimafia chiodata che ha fatto da corona alla cultura del sospetto ed è arrivata al punto di criminalizzare non solo Ciancio ma anche i giornalisti che negli anni roventi delle guerre di mafia si sono trovati invece esposti in prima fila. I giudici della Corte d’appello restituiscono l’onore all’editore e al direttore de La Sicilia, ma anche all’intera redazione, alla quale hanno riconosciuto indipendenza e linearità di comportamenti. Non solo. Ritengono che Ciancio sia stato vittima e non complice delle spregiudicate cosche catanesi. E per dimostrarlo fanno a pezzi tutti gli attrezzi di scena con i quali i pubblici ministeri allungano a dismisura la liturgia teatrale dei processi di mafia. Vengono smentiti e ritenuti inattendibili numerosi pentiti, in particolar modo quelli che da trent’anni a questa parte girano per le aule dei tribunali, a volte non ricordano quello che hanno detto prima e spesso finiscono per contraddirsi.
I giudici, primi fra tutti quelli delle corti d’appello, non ne possono più. E un’altra traccia molto pesante del loro fastidio si ritrova anche e soprattutto nella sentenza che, dopo venticinque anni, ha assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, accusato di essere stato addirittura un protagonista della fantomatica trattativa tra alcuni uomini dello Stato e i più spietati capi della cupola mafiosa. Forse è venuto il momento di avviare una riflessione seria su come viene amministrata in Sicilia l’emergenza mafiosa. Su come vengono amministrati i sequestri.