Il problema delle carceri italiane oltre l'emergenza coronavirus
Usiamo questo tempo per imparare dai nostri errori. È necessario che l’Italia ritrovi la sua dignità in ambito carcerario
Non è tempo di polemiche. Dobbiamo marciare uniti per sconfiggere il coronavirus; lo dobbiamo a chi è impegnato giorno e notte a contrastare una tragedia umana, sociale, economica. Allo stesso tempo cerchiamo di imparare dagli errori, alcuni dei quali tragici e ripetuti, come quelli legati al mondo carcerario e più in generale alla Giustizia. Il sovraffollamento disumano delle carceri è un autentico attentato all’articolo 27 della Costituzione che prevede tra l’altro il rispetto della dignità del carcerato e la sua rieducazione. A fianco del sovraffollamento non si può dimenticare l’uso sproporzionato della carcerazione preventiva degno di una visione che prevede il “carcere” anche quando sarebbero più giuste e più efficaci sanzioni immediate anche non detentive.
Le problematiche legate al possibile contagio del coronavirus e alle restrizioni dei colloqui con i parenti hanno riaperto in modo drammatico un problema cronico del sistema penitenziario italiano. Le proteste nelle carceri hanno attraversato il nostro paese da nord a sud, da Milano a Rieti, da Modena a Palermo causando la morte di dodici detenuti e numerose evasioni. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato più volte il nostro paese per i tempi lunghi della giustizia, per l’eccesso di carcerazione preventiva, per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, per il sovraffollamento delle nostre carceri e per la mancanza di spazio vitale nelle celle. Ma la nostra Costituzione è tradita anche per il mancato rispetto del principio per cui l’imputato non può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva e che indica come ogni processo si debba svolgere nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale con la legge che ne assicuri la ragionevole durata. Aggiungo, considerata la situazione di emergenza in cui ci troviamo, che le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese prevedono che “in caso di pericolo pubblico internazionale” possano essere prese misure che deroghino agli obblighi imposti per un tempo determinato e limitato: “nessuna deroga può però essere prevista per alcuni diritti fondamentali, tra cui la libertà di pensiero, di coscienza e religione, il diritto alla vita nonché il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti”. Eppure quello che viviamo da decenni nei nostri istituti penitenziari è, ora più che mai, una situazione inaccettabile. Basti ricordare le condanne del nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Secondo i dati del ministero della Giustizia, attualmente i detenuti in Italia sono oltre 61.000 e la capienza regolamentare è pari a poco meno di 51.000 posti. Il rapporto del 2019 dell’osservatorio sulla situazione carceraria in Europa evidenzia che il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane è pari al 119,8%, ossia il più alto dell’Unione Europea, seguito da Ungheria e Francia.
Il decreto legge del 16 marzo scorso prevede gli arresti domiciliari per i detenuti che ancora devono scontare sino a 18 mesi di carcere e, quando il residuo pena sia superiore a 6 mesi l’obbligo del braccialetto elettronico (dovrebbero essercene in dotazione 15.000 mentre attualmente ve ne sono meno di 2.600). Ne sono esclusi i detenuti i responsabili di gravi reati, i delinquenti abituali e quelli coinvolti nelle violenze dei giorni scorsi.
Queste disposizioni saranno valide fino al 30 giugno e dovrebbero prevedere una procedura per la concessione della detenzione domiciliare molto più “rapida” dell'attuale.
Ma tutto questo può bastare? No di certo, purtroppo. Per questo sarebbe un importante passo in avanti se il Parlamento avesse la forza e il coraggio, in sede di conversione del decreto, di migliorarlo promuovendo l’estensione di questi benefici oltre il 30 giugno e avviando una selettiva analisi di quali reati possono prevedere misure alternative al carcere, ponendo l’obiettivo della reclusione per i soli soggetti violenti e pericolosi e incapaci del rispetto delle regole. Per gli altri occorre pensare a una forte depenalizzazione e a una promozione più accentuata dei riti alternativi arrivando anche a forme di giustizia riparativa già avviate, con esito positivo, in Italia e all’estero.
Nel breve periodo occorre rendere effettivo l’organico disponibile di braccialetti elettronici e, addirittura, accrescerlo notevolmente. Le norme previste nel decreto legge prevedono anche, in alcuni punti una eccessiva la discrezionalità.
L’esperienza insegna – e i dati lo dimostrano – che ove sono applicate pene alternative al carcere si abbassa di molto la percentuale di recidiva. Perché non ragionare – per i residui di pena inferiori ai 2 anni – a una “sospensione condizionale della pena”, con la clausola che non solo se si commette un nuovo reato ma anche se si violano gli obblighi imposti, si rientra in carcere per scontare l’intera pena e quella prevista per il nuovo illecito commesso? Ma vi è un altro problema che si deve porre. Col decreto legge si vorrebbe intervenire su chi ha una pena residua da scontare inferiore a 2 anni. Ma nessun intervento è previsto per chi è in attesa di giudizio ed è quindi presunto innocente. Sarebbe una assurdità. Chi è condannato potrebbe, a determinate condizioni, usufruire degli arresti domiciliari e uscire dal carcere, chi non è condannato dovrebbe continuare a stare in carcere. Per gli oltre 19.000 detenuti in attesa di giudizio gli oltre 10.000 con sentenza non definitiva il decreto legge non prevede nulla. Perché non cogliere questa tremenda situazione per estendere le possibilità, in fase di indagine o di dibattimento, di accedere a misure ristrettive differenti al carcere?
In ultimo ricordo come una risoluzione del Parlamento europeo dell’ottobre 2017 rilevi come “il numero di detenuti continua a superare il numero di posti disponibili in un terzo degli istituti penitenziari europei” e che il 20% della popolazione carceraria era costituita – ottobre 2017 – da detenuti in carcerazione preventiva.
L’aumento e l’ammodernamento della capacità delle strutture detentive, attingendo ai fondi strutturali europei, è quanto mai urgente e necessario, ma non è e non può essere l’unica soluzione a un problema così radicato. Il nostro paese si trova quasi all’anno zero. Perché questa ferita venga curata è necessario avere una visione di lungo periodo al di là dei momenti emergenziali, seppur gravissimi, come quello che viviamo oggi. Per questo è necessario che l’Italia ritrovi la sua dignità in ambito carcerario.
*europarlamentare Pd