Non solo le celle affollate. Un appello alla giustizia per tutelare i carcerati ammalati
La necessità di predisporre criteri normativi volti a guidare la discrezionalità del giudice impegnato a contemperare salute individuale e tutela della sicurezza pubblica
L’attuale emergenza sanitaria da Covid-19 – com’è noto – comporta rischi di enorme gravità e crea, di conseguenza, gravissimi problemi nell’universo penitenziario. Non a caso, su questo giornale sono stati più volte evidenziati i molti limiti delle misure deflattive già varate dal governo ed è stata prospettata l’esigenza di più efficaci disposizioni normative tendenti ad allargare l’area dei detenuti potenzialmente beneficiari.
Alludo, in particolare, al numero notevole di persone recluse ultrasessantacinquenni e soprattutto a quelle affette – come non di rado accade – da molteplici patologie puntualmente documentate: tra queste, è tutt’altro che piccolo il numero dei soggetti con disturbi cardiaci e respiratori o con insufficienti difese immunitarie, che risultano quindi assai esposti a un contagio con effetti potenzialmente letali e che rischiano a loro volta di diventare causa di ulteriore diffusione delle infezioni intramurarie.
Così stando le cose, non sorprende che vadano in atto aumentando le richieste alla magistratura di sorveglianza di misure extra-detentive da parte di detenuti seriamente infermi. Come si orientano in proposito i giudici operanti sul territorio nazionale? In realtà in maniera abbastanza disomogenea. Ciò perché, essendo loro di fatto affidato il bilanciamento tra le contrapposte esigenze di salvaguardia della salute individuale e di tutela della sicurezza collettiva, essi manifestano orientamenti divergenti sul modo di contemperare i due importanti valori in gioco. Anzi, in qualche caso, si è perfino ritenuto che il mantenimento in carcere sia più funzionale alla tutela della stessa salute della persona reclusa: ad esempio, un magistrato di sorveglianza del nord ha rigettato una istanza di detenzione domiciliare anche in considerazione del fatto che il detenuto interessato aveva il domicilio in una “zona rossa”, e dunque in un contesto territoriale tutt’altro che immune da rischi.
Ma l’interrogativo ovvio è questo: un giudice fino a che punto è in grado, in un momento come questo, di comparare i rispettivi rischi connessi a una permanenza in carcere o a un ritorno in libertà? Anche allo scopo di evitare ingiustificate disparità di trattamento tra detenuti malati, sarebbe forse da prendere in seria considerazione la necessità di predeterminare criteri normativi volti a guidare la discrezionalità giudiziale. E’ impresa impossibile?
L'editoriale del direttore