Sorpresa, il decreto del governo se ne frega dei detenuti non definitivi
Il rischio sanitario nelle carceri che non fa distinzioni fra carcerati o operatori penitenziari
Roma. Sorpresa, il decreto del governo sulle carceri non si cura dei detenuti non definitivi. Non solo dunque le misure per evitare la diffusione del contagio nelle prigioni sono insufficienti, come ha spiegato in più articoli il Foglio nelle ultime settimane. Ma non si preoccupa neanche di affrontare il problema, non esattamente secondario, dei detenuti in attesa di giudizio definitivo.
L’“Associazione tra gli studiosi del processo penale G.D. Pisapia” ha elaborato un documento per spiegare una cosa apparentemente molto semplice ma che l’esecutivo non pare affatto aver colto, quando ha predisposto le norme: il virus non fa distinzioni fra detenuti o operatori penitenziari, colpisce tutti. Quindi il rischio sanitario vale per chiunque, anche per “quel terzo sul totale costituito dai detenuti non definitivi”, scrive il direttivo dell’associazione presieduta dal professor Oreste Dominioni dell’Università di Milano-Statale, rispetto ai quali, invece, “non compare nel testo del provvedimento d’urgenza alcuna previsione, nonostante l’identità di condizioni, di pericoli e, quindi, di necessità di intervento, rispetto ai detenuti definitivi”. Secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i condannati non definitivi al 31 dicembre 2019 sono 9.143. Oltre dieci anni fa erano 15.165.
“Il calo è essenzialmente legato alle misure introdotte a seguito della condanna Torreggiani”, dice al Foglio Giuseppe Caputo, ricercatore all’Università di Firenze. Nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per sovraffollamento, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu) per trattamenti inumani o degradanti. Dieci giorni fa il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti umani o degradanti (Cpt) ha indirizzato agli Stati membri del Consiglio d’Europa alcune raccomandazioni nelle quali viene indicata come “imperativa”, specie nelle situazioni di sovraffollamento, l’adozione di tutte le misure alternative alla privazione della libertà. Le misure adottate nel decreto legge però permettono la scarcerazione soltanto di chi ha una pena residua da scontare (fino ai sei mesi o fino ai diciotto, a seconda se debbano o no portare il braccialetto elettronico). “I termini di durata massima della custodia cautelare sono il frutto, più o meno accettabile, di un bilanciamento tra il riconoscimento dell’inviolabilità della libertà personale e la necessità di far fronte alle esigenze cautelari”, scrive il direttivo dell’associazione. Pertanto, se si vuole dare una risposta alla situazione di assoluta emergenza che interessa i detenuti non definitivi al tempo del coronavirus, “dobbiamo partire dalla consapevolezza della necessità di individuare un percorso specifico, necessariamente subordinato ad un intervento del legislatore”. La soluzione, spiega Caputo al Foglio, “non può essere il ricorso agli arresti domiciliari, visto che una larga parte degli imputati si trovano in custodia preventiva in carcere proprio perché sprovvisti di un domicilio dove scontare gli arresti. I domiciliari finirebbero per risultare una misura classista, riservata ai benestanti, mentre il virus non fa alcuna distinzione di censo”. Una soluzione potrebbe essere far riaprire alcuni carceri chiusi o individuare strutture per far eseguire là eventuali misure cautelari custodiali.
I problemi, insomma, non mancano. E questo perché, come osservano i giuristi dell’associazione, “nulla è stato fatto negli ultimi anni per migliorare le condizioni di vita all’interno delle nostre carceri, dove le carenze igienico-sanitarie si accompagnano sempre, nonostante le condanne della Corte di Strasburgo, ad un significativo sovraffollamento. Quindi, oggi ci troviamo impreparati a fronteggiare le situazioni di emergenza, ma anche colpevolmente in ritardo rispetto a situazioni di inadeguatezza cronicizzata del sistema della giustizia penale, in tutti i suoi momenti”.
Così, la concessione della detenzione domiciliare stabilita per i condannati a pena residua non superiore ai diciotto mesi “dovrà misurarsi con una discutibile previsione sull’obbligatorietà del controllo mediante il cosiddetto braccialetto elettronico. Ma siamo sicuri della disponibilità di tale strumento? Ovviamente il problema si riproporrà, amplificato, nel caso in cui si decida di estendere la misura attenuata ai detenuti non definitivi”.