Woodcock fa il garantista. E Travaglio non apprezza
Il pm critica la “giustizia frettolosa” e l'idea dei processi virtuali. Poi invoca un “progetto di amnistia e indulto” per non ingolfare il sistema. Ma per il direttore del Fatto è troppo
Curioso botta e risposta sul Fatto quotidiano tra Henry John Woodcock, sostituto procuratore a Napoli, e Marco Travaglio, direttore del Fatto. Woodcock, celebre soprattutto per le sue inchieste flop e per le decine di persone ingiustamente accusate (poi prosciolte o assolte) negli ultimi anni, ha recapitato a Travaglio un editoriale – pubblicato venerdì – in cui commenta in maniera critica, e inaspettatamente garantista, le spinte crescenti verso l’istituzione del processo smaterializzato. Travaglio, però, non l’ha presa bene.
“Quanto alla giustizia, passato il tempo in cui doveva essere giusta, oggi la si preferisce efficiente, qualsiasi cosa questo significhi – scrive Woodcock nel suo editoriale – In realtà, significa semplicemente più rapida. Stando almeno a quanto si legge nell’atto di indirizzo politico istituzionale per l’anno 2020 del ministro Bonafede, dove si parla quasi esclusivamente di ‘drastica riduzione’ e ‘dimezzamento’ dei tempi. Obiettivo certamente necessario, ma che non può costituire la priorità assoluta nel campo del processo, la cui unica priorità è la giustizia della decisione”. Per il pm, infatti, “il buon giudice non è quello veloce, ma piuttosto quello riflessivo, che si dà i suoi tempi”. D’altronde, “se la fatta frettolosa fa i gattini ciechi, il giudice frettoloso fa giustizia sommaria”.
Ora, leggere Woodcock prendere posizione contro le tendenze di alcune toghe a fare “giustizia sommaria”, visto il curriculum del pm anglo-napoletano, fa abbastanza sorridere. Ma andiamo avanti.
Woodcock affronta poi il tema dell’utilizzo di sistemi di comunicazione a distanza nel processo, sempre più frequente in tempo di emergenza coronavirus. Il pm, se da un lato considera queste procedure indispensabili, dall’altro sottolinea il rischio evidenziato dagli avvocati di una limitazione del diritto di difesa, in particolare per l’impossibilità per l’imputato di consultare il proprio legale. Ma Woodcock segnala anche un’ulteriore criticità: “La riduzione dell’imputato a mera immaginetta confinata in un monitor rischia di produrre fenomeni di de-responsabilizzazione del giudice. Vado spesso in Corte di Assise e mi piace immaginare che i giudici del collegio, mentre decidono la sorte dell’imputato, abbiano sempre presente che devono leggere il dispositivo (e l’eventuale condanna all’ergastolo) dinanzi all’imputato: sotto i suoi occhi, in un confronto muto ma intenso, cui non ci si può sottrarre”.
“Oggi, invece – prosegue il pm – la riduzione della presenza del detenuto a un francobollo incollato su una parete rischia di accentuare il carattere burocratico della decisione del giudice, esentato oramai anche da quel momento supremo di confronto (da uomo a uomo) un tempo inevitabile”. Insomma, l’importante per Woodcock è che “resti chiaro a tutti che il processo deve essere ‘giusto’, prima ancora che ‘efficiente’”.
Credevamo che i richiami contro la “giustizia sommaria” e in favore del “processo giusto” da parte di un pm che nel corso della sua carriera si è distinto soprattutto per i suoi flop giudiziari rappresentassero il paradosso (e il divertimento) supremo, ma poi è accaduto altro.
Woodcock ha infatti aggiunto che per evitare di ingolfare la giustizia “sarebbe auspicabile mettere mano a un qualche – ben ponderato – progetto di amnistia e indulto, oltre che a un ‘massiccio’ progetto di depenalizzazione”. Non lo avesse mai fatto. Amnistia e indulto sono due parole bandite dal vocabolario giustizialista di Travaglio, che ha infatti deciso di pubblicare l’editoriale di Woodcock accompagnandolo con una breve nota: “Caro dottor Woodcock, condivido buona parte del suo ragionamento. Non però il finale, quello sull’amnistia e l’indulto, che mi hanno sempre visto e sempre mi vedranno assolutamente contrario”. Tra i due vecchi amici di manette volano gli stracci. More popcorn, please!