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No, il decreto Bonafede non riporterà i mafiosi in carcere

Ermes Antonucci

Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, svela il bluff del governo: “Il testo non serve. Stimola solo i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. È un modo per cercare di salvare la faccia”

Non si fermano le fake news sulla vicenda dei detenuti scarcerati durante l’emergenza coronavirus. Prima abbiamo scoperto che i cosiddetti “boss scarcerati” dal 41 bis per motivi di salute sono stati soltanto tre, e non 376, come sostenuto da diversi politici e organi di informazione. Poi abbiamo saputo che dei 373 detenuti scarcerati dall’alta sicurezza, ben 196 sono ancora in attesa di giudizio, e solo 155 sono stati posti ai domiciliari per motivi di salute. Ora veniamo a sapere che il decreto legge approvato sabato scorso dal Consiglio dei ministri, su spinta del Guardasigilli Alfonso Bonafede, in realtà non “riporterà i boss mafiosi in carcere”, come celebrato da diversi esponenti grillini. Del resto, non potrebbe essere altrimenti. “L’idea che una legge rimetta dentro le persone scarcerate dai giudici è impensabile – dichiara al Foglio Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale – In materia processuale esiste il divieto di applicare retroattivamente una legge che cambia sostanzialmente il significato della pena in senso sfavorevole. Una norma che riporta in carcere chi è uscito in base alla legge precedente è una norma retroattiva e non può essere applicata. A stabilirlo è stata la Corte costituzionale con la sentenza molto importante di due mesi fa sulla ‘Spazzacorrotti’”.

 

D’altronde, ricorda Flick, “i provvedimenti del giudice possono essere modificati soltanto da lui o dal giudice che sia chiamato a valutare l’impugnazione della decisione”, e certamente non dal governo o dalla legge direttamente, sull’onda di spinte mediatiche di stampo giustizialista. “Il decreto legge – sottolinea Flick – ha voluto sottolineare con maggior forza qualcosa che era già presente nella disciplina precedente, vale a dire la necessità per il giudice di sorveglianza di valutare ogni quindici giorni i motivi alla base della concessione al detenuto della detenzione domiciliare per motivi di salute, tenendo inoltre in considerazione il parere del procuratore nazionale antimafia o del procuratore distrettuale”.

 

In definitiva, per il presidente emerito della Consulta siamo di fronte a “una tempesta perfetta in un bicchier d’acqua, come già accadde qualche mese fa con la riforma della prescrizione”: “Il decreto non serve. Stimola i magistrati a fare delle verifiche che già erano tenuti a svolgere. Inoltre, non può porre un qualsiasi tipo di obbligo vincolante, perché sarebbe lesivo dell’indipendenza del giudice”. Insomma, “è un modo per cercare di salvare la faccia, per offrire al ministro e a una comunicazione sbagliata il pretesto per dire che così i detenuti vengono rimessi in carcere”. Flick, tuttavia, sottolinea che questo intervento “può rappresentare una forma di pressione indiretta sul giudice di sorveglianza”, perché rafforzare il ruolo della procura antimafia “significa scaraventare un peso molto grosso sulla bilancia con cui si cerca di trovare un equilibrio tra le istanze della salute e della sicurezza”.

La disciplina penale del trattamento del detenuto, qualunque sia il reato per il quale è stato condannato, comporta che la tutela della salute debba avere la prevalenza sulla esigenza di sicurezza – aggiunge Flick – Se l’unico modo per curare la persona da una grave infermità è quello di rinviare la pena, allora bisogna rinviare la pena, oppure concedere la detenzione domiciliare con particolari cautele”.

 

Piuttosto, prosegue il presidente emerito della Consulta, il problema è un altro e riguarda la qualità della democrazia: “Non c’è solo il problema di una forma di pressione indiretta sul giudice. E’ la reiterazione, in tempi accelerati, di tre decreti legge (uno convertito e due nuovi) a lasciare perplessi, così come è avvenuto con i decreti del presidente del Consiglio. Così si rischia di svilire la legge”.

 

C’è un’altra riflessione generale, infine, che secondo Flick andrebbe fatta e riguarda il ruolo del carcere nella nostra società: “Viviamo in un contesto in cui c’è un’enfatizzazione preoccupante del carcere. Credevo che il coronavirus potesse essere l’occasione per sostituire la pena della limitazione della libertà fisica con altri tipi di pene. Risulta difficile salvare la dignità della persona nel momento in cui la si condanna a una privazione della libertà personale che finisce per diventare sovraffollamento, per il quale in passato siamo stati condannati dalla Corte Cedu. Questo Paese, però, continua a vedere la condanna alla reclusione come l’unico strumento di difesa sociale contro le devianze. Non è così. Il carcere dovrebbe essere limitato a situazioni di particolare violenza e pericolo per gli altri”.

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