Luca Palamara (foto LaPresse)

Intercettazioni irrilevanti, che fare? Perché il Foglio ha scelto di non pubblicarle

Claudio Cerasa

Contro la slavina dello sputtanamento, anche quando travolge chi non ci piace. Le responsabilità della magistratura e della stampa. Non è solo una questione di privacy. Appunti oltre il caso Palamara

L’incredibile slavina di sputtanamento precipitata come una valanga sulla reputazione della magistratura italiana può essere osservata utilizzando due chiavi di lettura molto diverse l’una dall’altra. La prima chiave di lettura è quella che ha costretto venerdì scorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a intervenire per mostrare il proprio “grave sconcerto” e la propria “riprovazione per quanto emerso” con una particolare preoccupazione relativamente alla “degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati”. La prima chiave di lettura è relativa dunque a ciò che è emerso dalle intercettazioni tra magistrati pubblicate nelle ultime settimane da diversi giornali ed estrapolate da un insieme di carte giudiziarie messe insieme dagli inquirenti nell’ambito di una doppia indagine a carico di Luca Palamara, sul quale ha indagato per mesi la procura di Perugia sulla base di due capi di imputazione: corruzione in atti giudiziari, per aver provato a facilitare la nomina a procuratore capo di Gela di Giancarlo Longo a fronte del pagamento di 40 mila euro, e corruzione semplice, per aver messo, secondo l’accusa, le sue funzioni a disposizione di Fabrizio Centofanti, ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone, in cambio di viaggi e regali. 

 

 

Le conversazioni registrate dagli inquirenti tra politici, magistrati e giornalisti hanno avuto un effetto dirompente sul Csm – da maggio a oggi si sono dimessi cinque consiglieri, la scorsa settimana si sono dimessi i vertici dell’Anm – e da un anno il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede promette di essere pronto a presentare una grande e poderosa riformare per togliere peso al sistema correntizio che governa il Consiglio superiore della magistratura (salvo poi affidare i ruoli apicali del ministero della Giustizia a magistrati scelti con lo stesso Cencelli correntizio usato dal Csm). C’è dunque un lato della storia che riguarda ciò che abbiamo scoperto del mondo della giustizia italiano attraverso la lettura delle intercettazioni ma c’è poi un secondo lato della storia che riguarda una questione non meno importante che ha a che fare non con i leoni delle procure ma con il circo che ogni giorno permette agli stessi leoni di proiettare a reti unificate lo show della giustizia spettacolo.

 

Questo secondo aspetto è stato poco affrontato negli ultimi dodici mesi, tuttavia costituisce un punto cruciale per gli equilibri non solo della buona informazione ma oseremo dire persino della stabilità del nostro stato di diritto. E la questione è fin troppo evidente e potremmo provare a riassumerla così: che paese è un paese che ha smesso di considerare un problema per la democrazia la pubblicazione sistematica di intercettazioni penalmente irrilevanti? E che paese è un paese che ha scelto di vivere considerando l’utilizzo improprio del buco della serratura della giustizia come uno dei nuovi asset del sistema democratico? Oggi che al centro della slavina dello sputtanamento ci sono i magistrati – molti dei quali prima di essere colpiti da questa slavina hanno utilizzato la slavina dello sputtanamento gratuito degli altri per dare forza ai propri fragili teoremi giudiziari – nessuno si occupa di ragionare attorno al modo in cui l’Italia ha scelto in via temiamo definitiva di spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento. Ma se si ha il coraggio di allargare l’inquadratura della scena che abbiamo descritto finora – il caso Palamara, e ci chiediamo se fosse davvero necessario aspettare qualche intercettazione per capire che la magistratura italiana è governata dalle correnti – si capirà facilmente che il grave sconcerto e la riprovazione per quanto emerso non dovrebbero valere solo per le prassi riprovevoli portate avanti da alcuni magistrati italiani. Dovrebbero valere anche per altro. Dovrebbero valere, per esempio, per il modo disinvolto con cui gli inquirenti hanno dato la possibilità di utilizzare intercettazioni che mai sarebbero dovute finire in mano ai giornali.

  

 

Anni fa, Piero Tony, ex procuratore capo di Prato, raccontò a questo giornale che i magistrati troppo spesso hanno una disinvoltura eccessiva nell’inserire nei fascicoli intercettazioni che non ci dovrebbero essere. Esistono, ricordò Tony, casi in cui le intercettazioni costituiscono un elemento imprescindibile di un’indagine ma esistono anche casi in cui le intercettazioni vengono utilizzate “per regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti”. Nel caso in questione, nel caso dell’inchiesta su Palamara, le scandalose intercettazioni che avete letto negli ultimi mesi non sono soltanto irrilevanti, irrilevanti dal punto di vista penale, ma sono anche intercettazioni che sono state fatte utilizzando una microspia ambientale, il famoso trojan, che ha tracciato gli incontri, le telefonate, i messaggi di Palamara, il cui uso è stato reso possibile da un capo di imputazione formulato dagli inquirenti che oggi però non c’è più: la corruzione in atti giudiziari, ipotesi d’accusa lasciata decadere dagli stessi pm qualche settimana fa.

 

Dunque non solo le intercettazioni che abbiamo letto e commentato sono intercettazioni penalmente irrilevanti che non sarebbero dovute finire ai giornali ma per di più le intercettazioni sono state realizzate sulla base di un’accusa rivelatasi totalmente infondata. In Italia, purtroppo, è diventata una prassi comune rassegnarsi all’idea che sia lecito discutere del contenuto di intercettazioni che non avremmo dovuto conoscere e allo stesso tempo è diventata una prassi accettare un metodo che si trova alla base della nostra repubblica giudiziaria fondata sulla gogna. Dove un’intercettazione che non andava trascritta viene trascritta e allungata a un giornalista. Dove un giornalista in nome della libertà di stampa e del dovere di cronaca accetta di diventare la buca delle lettere dei professionisti del pizzino giudiziario. E dove lo stesso giornalista fa tutto questo sapendo che pubblicare quella notizia costituisce sì reato, come previsto dall’articolo 326 del codice penale (rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio), ma sapendo che alla fine il giornalista se la cava pagando una piccola oblazione.

 

Ci sono giornali che hanno accettato di alimentare ogni giorno la repubblica della gogna rivendicando il diritto di usare le intercettazioni come un’arma non convenzionale della lotta politica e fottendosene di combattere per evitare che la proliferazione della cultura del sospetto possa trasformare il nostro paese in una oscena dittatura giudiziaria. Ci sono giornali che si indignano del fatto che in Italia vengono fatte 132.749 intercettazioni all’anno – che corrispondono a quattro volte il numero di intercettazioni compiute in Francia e a quaranta volte il numero di captazioni effettuate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti (escluse le attività compiute dai servizi segreti) – e del fatto che l’Italia sia da anni il paese con il più alto numero di intercettazioni pro capite (76 ogni 100 mila abitanti contro le 23,5 della Francia, le 15 della Germania, le 6 della Gran Bretagna, le 0,5 degli Stati Uniti: i dati sono stati diffusi nel 2004 dal centro studi tedesco Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law) solo quando a essere sputtanati tramite intercettazione irrilevante sono i propri amici. Ci sono giornali, quasi tutti, che hanno fatto questa scelta.

 

Noi al Foglio abbiamo fatto una scelta diversa, abbiamo deciso semplicemente di chiudere il rubinetto e abbiamo scelto anche questa volta di non pubblicare nessuna intercettazione non per una questione di snobismo ma per una questione più importante: quando si sceglie di pubblicare un’intercettazione che non dovrebbe essere pubblicata non si sta violando solo la privacy di una persona intercettata ma si sta giocando con i princìpi di uno stato di diritto. Le intercettazioni sono uno strumento spesso prezioso per le indagini ma per evitare che queste possano essere utilizzate per regolare conti piuttosto che per mostrare prove basterebbe una piccola soluzione: non pubblicare le intercettazioni durante le indagini preliminari e aspettare quantomeno il dibattimento per capire quali prove e quali intercettazioni sono risultate essere solide e quali invece no. Sorridere di fronte ai magistrati che sperimentano sulla propria pelle la violenza degli strumenti che hanno utilizzato per colpire alcuni indagati può dare una certa soddisfazione.

 

Ma magistrati o non magistrati – c’era bisogno delle intercettazioni per sapere che le correnti della magistratura si muovono come correnti? – un paese con la testa sulle spalle forse avrebbe il dovere di chiedersi che paese è quello in cui quando si parla di intercettazioni tutti sono pronti a difendere il diritto allo sputtanamento mentre nessuno purtroppo è disposto a difendere i princìpi basilari dello stato di diritto. “Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini – diceva il cardinale Richelieu, in una citazione che ha offerto tempo fa a questo giornale il magistrato Guido Salvini – e vi troverò una qualche cosa sufficiente per farlo impiccare”. Vale quando si parla di magistrati, vale quando si parla di politici. Lo stato di diritto si difende sempre. E non lo si difende solo quando la slavina finisce addosso a chi ci sta sulle balle.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.