Csm, eccolo il vero marcio
Senza prima arginare la giustizia da talk-show nessuna riforma può avere senso
Come spesso accade nel nostro paese, per far fronte a mali sociali nuovi o riemergenti si cerca subito di ricorrere a una ennesima riforma legislativa. Così sta riaccadendo per reagire al perdurante scandalo della vicenda Palamara, come se una revisione della disciplina legislativa sull’elezione e il funzionamento del Csm potesse produrre l’effetto magico di eliminare le cause – per richiamare la recente nota del Quirinale – delle “degenerazioni del sistema correntizio” e della “inammissibile commistione” tra politici e magistrati. Come osservatori attenti e studiosi ben sanno, purtroppo non è così: la migliore delle nuove leggi possibili potrà apportare, tutt’al più, qualche correttivo ad alcune delle distorsioni più vistose. A ben vedere, il caso Palamara presenta taluni aspetti inediti sia per la maggiore gravità delle degenerazioni comportamentali venute alla luce (mi riferisco all’addebito di corruzione ancora, però, sub judice a Perugia), sia soprattutto per il fatto che fino a un recente passato del trasversale mercato correntizio degli incarichi direttivi l’opinione pubblica non aveva avuto riscontri oggettivi altrettanto sicuri e univoci. Ma in realtà si tratta di una storia vecchia, di cui sono stato in qualche misura diretto testimone quale componente laico dell’organo di autogoverno nella consiliatura 1994-1998. Non a caso, in tale veste ho potuto sperimentare varie esemplificazioni di un associazionismo già deteriorato, dal momento che è da non pochi anni che le cosiddette correnti sono andate smarrendo la capacità di riflessione ed elaborazione culturale, scadendo sempre più a strutture e macchine di potere preposte alla spartizione dei posti e allo scambio clientelare di favori: per cui ho personalmente assistito a diversi casi (per fortuna, non tutti!) in cui i vertici degli uffici giudiziari sono stati prescelti in base a criteri più di appartenenza ccorrentizia che di effettivo merito comparativo. Vi sono, d’altra parte, fondati motivi per ritenere che tale processo involutivo sia stato concausato da fattori esterni all’ordine giudiziario, che hanno a che fare con i contesti non solo politici ma anche socio-culturali di riferimento. Si tratta di rapporti di connessione messi in luce non da ora nell’ambito della migliore letteratura saggistica, per cui non è una scoperta inedita o una provocazione azzardata proporre il concetto di “mutazioni antropologiche” dell’uomo-magistrato quale riflesso di tendenze culturali, di costumi e di prassi che di volta in volta si avvicendano nella società esterna.
Già Ralf Dahrendorf, in un saggio di circa quarant’anni fa, scriveva che difficilmente i giudici possono essere migliori della media dei cittadini della società in cui operano. E’, questa, una verità sociologica che sembrerebbe trovare conferma proprio nella triste vicenda attuale: il personaggio Palamara, con la sua fame bulimica di potere, di successo carrieristico, di relazioni sociali plurime, di visibilità, di presenzialismo e di occasioni edonistiche ecc., non può forse apparire uno specchio che riflette miti, riti e sogni di una parte non piccola del popolo televisivo odierno? Si obietterà che si tratta di uno specchio deformato in senso parossistico e quasi parodistico. Ma è vero fino a un certo punto. Sintomi non trascurabili di una deriva individualistica incline al successo personale, all’ambizione carrieristica talora spregiudicata e alla narcisistica visibilità esterna sono presenti tra i magistrati di oggi in una misura tutt’altro che esigua, e – come sappiamo – sono ben più frequenti nella cerchia dei pubblici ministeri. Con la complicità di noti settori del sistema mediatico, è diventato normale nel nostro paese che un magistrato d’accusa intervenga nei giornali o in televisione per discettare di qualsiasi tema, affermare presunte verità con arroganza dogmatica, commentare proprie indagini e processi anche in corso, indirizzare critiche aspre a colleghi giudici autori di provvedimenti sgraditi (emblematico il recente caso delle rampogne rivolte ai magistrati di sorveglianza per avere scarcerato boss a causa dell’emergenza sanitaria; o, ancora, per sollecitare da attori politico-giudiziari scelte iper-repressive di politica penale, che governo e parlamento hanno però a loro volta spesso il torto e la debolezza di recepire quasi passivamente, così assecondando una sostanziale funzione para legislativa delle procure con conseguente elusione del principio della divisione dei poteri e,altresì, contribuendo – in anni più recenti – a incrementare la perversa miscela tra populismo politico e populismo giudiziario. E’ evidente che questo sostanziale ruolo politico viene esercitato dai pubblici ministeri soprattutto grazie alla insistita presenza nei media e alle frequenti sollecitazioni a intervenire loro rivolte dalla stampa incondizionatamente fiancheggiatrice.
In una recente intervista a questo giornale, anche l’ex ministro ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick ha ritenuto di dovere stigmatizzare la prassi dei magistrati che appunto straparlano di quasi tutto nelle sedi più svariate. Ma al riguardo voglio richiamare ben precedenti e allarmate considerazioni che Gaetano Silvestri (anch’egli ex presidente della Corte costituzionale) scrisse nel libro “Giustizia e giudici nel sistema costituzionale” apparso nel 1997, non a caso qualche anno dopo essere stato pure lui membro del Csm: “Uno dei mali maggiori delle istituzioni italiane, non eliminabile con revisioni costituzionali di qualsiasi tipo, è la tendenza irrefrenabile all’esternazione estemporanea di molti importanti magistrati (…). Il fenomeno ha ormai raggiunto dimensioni tali da non potere più essere classificato tra i fatti di costume, o affrontato in termini di stile e senso dell’opportunità. Si tratta di una vera e propria emergenza costituzionale”. Anche perché – argomentava Silvestri – ne deriva come effetto la perdita da parte dell’opinione pubblica della percezione del “senso dei limiti delle sfere costituzionali di attribuzione di ciascun potere dello Stato”. Che risonanza pratica ha avuto, nei vent’anni successivi, una diagnosi così lucida e preoccupata? Il libertinaggio esternante, diagnosticato come grave patologia costituzionale, è andato invero aggravandosi. Basti citare la recente e sorprendente accusa di intese trattativiste con la mafia assai incautamente adombrata,addirittura per via televisiva, dal magistrato-simbolo Di Matteo a carico del guardasigilli Bonafede. Si era mai arrivati a tanto?
Quella delle legittime modalità di intervento pubblico (extraistituzionale) dei magistrati è una questione spinosa che riguarda anch’essa, sotto rilevanti aspetti, il nodo cruciale del rapporto tra giustizia e politica. L’attenzione preoccupata non dovrebbe in effetti essere rivolta soltanto alle “commistioni inammissibili” tra magistrati e politici, finalizzate – come ha evidenziato il caso Palamara – a creare indebite o poco trasparenti alleanze trasversali di potere per influenzare la scelta del vice-presidente del Csm, condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari più importanti, oppure ad esempio per promuovere intese in vista di politiche legislative gradite al potere giudiziario, stipulare accordi per lo scambio di reciproci favori, o – peggio ancora – per precostituire coperture immunizzanti rispetto a eventuali azioni illecite connesse all’attività politico-partitica. Allarme e preoccupazione dovrebbero, altresì, suscitare forme di collateralismo (vecchio o nuovo) tra politica e giustizia motivate da fini comparativamente più nobili, ma che non per questo risultano innocue quanto alle possibili ricadute nocive sul funzionamento complessivo del sistema democratico: alludo – come si sarà intuito – a quei rapporti di contiguità tra settori della magistratura e settori della politica (o tra singoli magistrati e singoli politici) che poggiano sulla condivisione di ideali, valori o ideologie di fondo che vengono poi tradotti in obiettivi comuni da realizzare per via sia politica che giudiziaria. Per esemplificare, si pensi in anni non più vicini al rapporto di consonanza culturale tra gli aderenti al gruppo di Magistratura Democratica e i partiti di sinistra di una volta (con al centro il Pci ma non soltanto), basato sull’idea condivisa dell’impegno politico del magistrato per l’attuazione della Costituzione e in difesa dei ceti sociali più deboli; e, in tempi più recenti, a fenomeni di collateralismo culturale (si fa per dire!) tra un certo populismo penale di matrice grillina e un populismo giudiziario à la Davigo o Di Matteo, cementati oggi dal pregiudizio pericoloso, tanto più se in buona fede!) che il potere punitivo sia di per sé buono, giusto e persino salvifico e che i magistrati duri e puri abbiano, perciò, i maggiori titoli di legittimazione per assurgere a pedagoghi e guide morali del popolo degli onesti tradito dalla vecchia politica gestita dai furbi e disonesti. Evidentemente, per cercare di fare chiarezza su quale sia il possibile senso da attribuire – in questa fase di confusione, di pluralismo esasperato e di generale decadimento politico-culturale – a principi e concetti quali soggezione del giudice alla legge, legittimi confini dell’interpretazione giudiziale, libertà di espressione, ruolo pubblico (extrafunzionale) e impegno culturale del magistrato nella realtà esterna ecc, ci vorrebbe assai di più di una nuova legge sul Csm, che potrà semmai attenuare le deviazioni più evidenti e superficiali, ma non certo contribuire ad elevare la sensibilità costituzionale, la autocoscienza di ruolo ed il livello di cultura professionale della maggior parte dei magistrati. Sarebbe prima necessario, piuttosto, un rinnovato dibattito pubblico allargato sul modello di magistrato e sul codice deontologico, più adeguati alle sfide del mondo contemporaneo. E bisognerebbe, nel contempo, riaprire il discorso sui gravi limiti del concorso pubblico (così come finora concepito) quale canale di accesso alla funzione giudiziaria, sui persistenti deficit della formazione culturale e tecnica destinata ai futuri magistrati, e – non ultimo – sulle provenienze, le competenze e le insufficienze dei soggetti responsabili delle attività formative nell’ambito della attuale Scuola della magistratura: sono questi, ad avviso di uno studioso di lungo corso come chi scrive, i problemi e temi di fondo che dovrebbero essere riaffrontati per tentare di ridare legittimazione e credibilità all’ordine giudiziario. Ma, forse, si tratta di questioni troppo impegnative, che trascendono il ristretto orizzonte mentale e il corto respiro politico del tempo presente.
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