Una corte senza mondanità. Lettera a Cartabia
La ricerca del consenso è propria della politica e mette a rischio l’autonomia del giudice. La Consulta funziona se è avvolta nel mistero, non se cerca popolarità
Ieri, sul Corriere, Marta Cartabia ha spiegato la Festa della Repubblica. La nomina di Cartabia alla presidenza della Corte costituzionale, nel dicembre scorso, era stata una gran bella notizia – la prima volta di una donna in quella carica – che ne implicava una malinconica – mai una donna in quella carica, nei 63 anni dall’entrata in funzione della Corte, 1956. In totale, se non sbaglio, le giudici donne sono state 5 (4 vigenti), contro 106 uomini: un po’ meno del 5 per cento. Appena meglio che la percentuale femminile sulla popolazione detenuta: il 4,13 per cento. C’è ancora tanta strada da fare, prima della parità: o gli uomini riducono le loro carriere giuridiche o criminali, o le accrescono le donne.
C’era dunque da rallegrarsi, tanto più che la presidente sottolineava il proposito di “apertura” della Corte ai cittadini, al centro della sua Relazione sull’attività nel 2019, e ricordava in particolare il “Viaggio in Italia” dei giudici: titolo simpatico, che insinuava che fino ad allora avessero vissuto altrove, in un loro estero psicologico e logistico – il palazzo della Consulta. Le due tappe del viaggio avevano riguardato carceri e scuole. Per le carceri avevo apprezzato l’impressione forte che alcuni visitatori sembravano averne riportato, caratteristica del resto di chiunque, non immune da un’umanità, faccia quella esperienza, anche a piede libero. Ignorante di diritto e di Costituzione, mi ero sentito autorizzato dall’invitante “apertura” dichiarata dalla Corte a farmene un’idea. Per esempio, avendo appreso che ciascuno dei 15 giudici della Corte godeva da sempre del diritto a visitare le carceri senza preavviso, mi ero chiesto se e quanti se ne fossero mai valsi: rarissimi, mi par di capire. (Trovo questa considerazione di Carmela Salazar: “Colpisce come, ben prima della istituzione dei garanti dei diritti dei detenuti, il garante dei diritti di tutti sia stato munito del potere di accesso ‘privilegiato’ agli istituti di pena: il fatto che la norma sia rimasta sostanzialmente inattuata, non può far dimenticare che si tratta dell’unico caso in cui ciascun giudice costituzionale è istituzionalmente chiamato a svolgere il ruolo di garante della Costituzione, peraltro in una forma peculiare, vale a dire constatando personalmente se e come, di fatto, la Carta repubblicana trovi attuazione negli istituti di detenzione”). Può darsi che la conoscenza diretta di che cos’è una galera non basti a rendere più premurosi verso “il volto costituzionale della pena” (Andrea Pugiotto); ma almeno farà passare dal “non sanno” al “sanno quello che fanno”.
La “grande apertura” cui la relazione di Cartabia era improntata si riferiva del resto a un anno in cui la presidenza era di Giorgio Lattanzi, e lei era sua vice. Comunque, con una specie di ingenuità profana, ero stato attratto dall’“apertura” della Corte, come da ogni apertura, e dallo stile convincente della presidente Cartabia, tanto più in tempi di pandemia e di mal di mare costituzionale, e ne avevo scritto così giusto un mese fa. Dopo di allora ero stato assalito da una piccola tempesta del dubbio, specialmente fomentata dalla catastrofe della magistratura italiana organizzata e dissacrata da se stessa. L’apertura alla società, l’uscita dei giudici dal palazzo e l’invito a palazzo dei cittadini, non avrebbero rischiato di esporre anche la Corte costituzionale alla compromissione quotidiana della vanità, della meschinità, degli intrighi cortigiani?
Dovrei vergognarmi di un sospetto così reazionario, e tuttavia il maligno insinuava in me l’incubo di un portone spalancato alla trasparenza, su un corridoio via via più stretto in fondo al quale erano in agguato decine di migliaia di chat. Si sarebbe rimpianta la segretezza e la distanza “estera” della Corte, come si era dovuto rimpiangere, troppo spesso, che il bambino malizioso avesse additato il re nudo? Ero in questi pensieri quando una notte fonda di Radio Radicale ha trasmesso un web-seminar, un seminario in rete, cioè, dal titolo pertinente e a sua volta malizioso: “Invito a Corte… con juicio”. Per parecchie ore un certo numero di giuristi, su invito di Nicolò Zanon, giudice costituzionale, ha dibattuto sulle innovazioni portate al funzionamento della Corte, sempre in nome dell’apertura. Due in particolare: l’ammissione dell’“Amicus Curiae”, cioè “la possibilità concessa a qualsiasi ‘formazione sociale senza scopo di lucro’ e a ‘soggetti istituzionali’, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, di presentare opinioni scritte, non più di 25 mila battute spazi inclusi, per offrire alla Corte “elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso”. E la possibilità di invitare “esperti di chiara fama” qualora il giudice costituzionale ritenga necessario “acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline”.
Ho ascoltato tutto con attenzione, per così dire, antropologica, non disponendo di un’attenzione disciplinare: come abbiamo un po’ tutti ascoltato, a bocca aperta e mascherina, il colossale seminario televisivo di virologi immunologhe intensivisti ed epidemiologhe; traendone la stessa frastornata sensazione, di ammirazione per la loro scienza, e di allarme per le loro rivalità e vanità umane-troppo-umane. Privilegio del profano benevolo è di trovare che “abbiano un po’ ragione tutti”, piuttosto che il contrario. Il relatore del seminario, Massimo Luciani, era decisamente ostile alle innovazioni, e gli intervenuti si muovevano lungo una gamma di atteggiamenti. L’entusiasmo per l’apertura – esempio: Valerio Onida (o, in altra sede, Carlassare: “La Corte… dichiarando di voler essere giudicata dai cittadini oltre che dalla comunità degli studiosi, chiarisce verso chi si sente responsabile riaffermando così la sua totale indipendenza dal potere politico. E’ la voce della società civile quella che conta, la voce che la Corte vuole sentire”). O la cautela – i più – o il rigetto pieno – esempio: Maria Cristina Grisolia o Michela Manetti, per le quali la trasformazione della Corte in palestra di “argomenti e valori” portati dagli Amici Curiae ne farebbe un doppione del Parlamento, rischio tanto più grave in tempi in cui il Parlamento non va tanto forte. Torna qui il tema della “supplenza”, ricorrente quanto è ricorrente l’idea della perenne emergenza. Avemmo il pansindacalismo in supplenza alla debolezza dei partiti, il pangiudiziarismo in supplenza della politica, ora magari l’esorbitanza della Corte costituzionale in supplenza di politica e magistratura ordinarie. E’ un fatto che la Corte, complementarmente e più profondamente che il presidente della Repubblica, se non altro per la durata, è diventata un contraltare all’inefficacia e all’insipienza delle istituzioni elettive e degli stessi governi. Sviluppo non scontato, se si ricordi il Marco Pannella che, specialmente in tema di ammissibilità dei referendum, la chiamava “suprema cupola della mafiosità partitocratica” (il che non gli impediva di digiunare perché il Parlamento nominasse i giudici che gli competevano). Qualcuno, come Roberto Romboli, costituzionalista pisano, ridimensiona l’enfasi con cui si presentano innovazioni e aperture, che gli paiono più di confezione che di sostanza. Riproponendo piuttosto questioni antiche e irrisolte, come l’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi non raggiunti all’unanimità. Spunto di battute piccanti: “Una riforma semplicissima potrebbe introdurre, in caso di approvazione a maggioranza, l’indicazione del numero dei voti favorevoli e contrari, a evitare che la notizia sia data dai giornali (con il nome dei giudici pro o contro) o addirittura dal telegiornale delle venti, con buona pace del segreto della camera di consiglio”. In sostanza, direi, delle due anime che si riconoscono alla Corte costituzionale, “politica” (in senso lato) e “giurisdizionale”, i critici paventano una prevalenza crescente e suggestiva della seconda. Mossa, dicono, da una ricerca del consenso popolare, che è propria della politica e mette invece a rischio l’autonomia del giudice, sia pure del giudice delle leggi che è il giudice costituzionale. Scrive altrove Romboli della “necessità di trovare un equilibrio tra un’apertura dalla quale certo non si tornerà indietro e la realizzazione delle condizioni perché la Corte costituzionale possa ancora definirsi ‘Giudice costituzionale’ e non ‘terza camera’.”
Il quale giudice costituzionale è infallibile, scherza Sabino Cassese, perché non c’è nessuno dopo di lui. Cito Cassese perché mi diverte l’idea di scrivere qui, dove il suo diario regna, al colmo dell’impertinenza. Del resto un po’ di cose sulla Corte com’è le avevo imparate dal suo libro piuttosto clamoroso, anche quello un diario, dopo la sua esperienza novennale di giudice costituzionale (“Dentro la Corte”, il Mulino, 2015). Pur senza svelare lagrime e sangue, Cassese vi sfrondava parecchi allori. Spiegava anche che la Consulta è l’unico organo del suo genere a non avere un archivio, anzi nemmeno una verbalizzazione delle sue udienze: a procedere secondo il principio di non lasciare traccia. Al nuovo eletto si dice: “La Corte parla solo attraverso le sue sentenze”, e per il resto sta zitta, ora e sempre, nei secoli dei secoli. In Francia, per fare il suo esempio, dopo 25 anni la Corte costituzionale pubblica tutti i suoi verbali in un volume in vendita al pubblico. Archivista di famiglia, Cassese pensava che bisognasse lasciare un’impronta dove si passa, e benediceva le mosse che attenuassero il mistero, come l’assunzione di un o una giornalista che aiutasse a trasmettere ai media, dunque al pubblico, una versione comprensibile delle decisioni della Corte. Vedo che anche il ricorso divenuto molto più frequente ai comunicati stampa della Corte è oggetto di dubbi, per una tendenza a forzare il senso di pronunciamenti di cui non sono ancora note le motivazioni, o a emulare uno stile giornalistico piccante: “La prostituzione al tempo delle escort: la Consulta ‘salva’ la legge Merlin”, 2019 (cit. in un Forum del “Gruppo di Pisa”).
Cassese ricordava che i Costituenti avevano voluto sventare l’eventualità che la nuova Costituzione finisse in mano ai vecchi giudici, ereditati dal ventennio fascista, e dunque la affidarono alla Corte costituzionale. Che inevitabilmente, non solo in Italia, turba il potere legislativo, perché sta sopra e non sotto la legge. Cassese si domandava, cinque anni fa, se il bisogno di mettere il controllo costituzionale al riparo dalla magistratura ordinaria fosse ancora giustificato, e rispondeva di no, “probabilmente”. Ma aggiungeva che una verifica preventiva di costituzionalità affidata alle Procure, così da evitare l’intasamento della Consulta, era uno sviluppo insieme interessante e rischioso. La domanda, e soprattutto la risposta, andrebbe aggiornata: risultando meno interessante, e più arrischiata.