(foto LaPresse)

Corruzione e mozzorecchi

Giovanni Fiandaca

Il diritto penale e le nuove frontiere della moralizzazione collettiva negli atenei

Un amico magistrato, col quale parlavo qualche giorno fa al telefono, tentava di convincermi, controbattendo alle mie decise obiezioni, che quanto a eventi scandalosi l’università non è che sfiguri rispetto alla magistratura: essa, piuttosto, vanterebbe un primato negativo tra le istituzioni pubbliche, poiché al suo interno la spartizione dei posti secondo logiche di potere sarebbe un fenomeno di malcostume così consolidato, da essere storicamente divenuto una prassi ormai di fatto legittimata da una acquiescenza diffusa. Mentre proprio la magistratura tenterebbe di reagire a questo radicato malcostume, come testimoniato da indagini e processi più volte instaurati a carico di baroni e baronetti universitari rei di favorire abusivamente allievi diretti, allievi di colleghi amici e persino propri parenti.

 

Per fare una esemplificazione recente ed emblematica, molta eco ha avuto in effetti anche sui giornali una mega indagine per sospetta manipolazione di una procedura valutativa nazionale nel settore del diritto tributario, che ha coinvolto i componenti della commissione giudicatrice in ritenuta combutta con docenti di varie sedi universitarie e la cui gestione, per ragioni di controvertibile competenza territoriale, è passata dalla procura di Firenze a quella di Pisa (la quale dovrà, a sua volta, decidere se mantenere il procedimento o spogliarsene per trasferirlo ad una altra procura ancora). Ma, al di là del problematico profilo della competenza, l’aspetto davvero interessante, e al tempo stesso sorprendente, riguarda la natura del delitto ipotizzato dai pubblici ministeri fiorentini: a loro avviso, la (presunta) spartizione concordata dei giudizi positivi di idoneità a professore configurerebbe – ecco la novità qualificatoria, della quale non constano precedenti giurisprudenziali – un concorso criminoso nel reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio. Sicché la corruzione cosiddetta accademica, vale a dire l’accordo con cui i membri di una commissione giudicatrice (eventualmente d’intesa anche con colleghi professori dello stesso settore disciplinare esterni alla commissione) si scambiano l’impegno a votare i candidati idonei in conformità alle richieste di ciascun commissario secondo una logica di reciprocità, non sarebbe solo una efficace metafora per etichettare una forma di malcostume o di corruzione morale: sarebbe una vera e propria corruzione, che il codice penale punisce con una pena-base da sei a dieci anni di reclusione (aumentata se il fatto ha per oggetto il conferimento di pubblici impieghi)! Si tratta di una configurazione giuridica corretta? O, piuttosto, di una spericolata e inammissibile torsione interpretativa escogita ad hoc per bollare e punire come delinquenti corrotti i commissari che mercanteggiano i giudizi di idoneità a professore universitario, e perciò concepita allo scopo di puntare ancora una volta per via giudiziaria a un improprio obiettivo di moralizzazione pubblica a mezzo di un forte stigma criminale?

 

Prima di riprendere questo dubbio, si impone – com’è forse intuibile – un interrogativo di ordine non strettamente tecnico-giuridico. Vi è cioè da chiedersi se il paradigma criminoso del concorso in corruzione non sia, in linea di ipotesi teorica, riproponibile in realtà rispetto all’analogo fenomeno della concordata spartizione correntizia degli incarichi direttivi e dei posti nell’ambito dell’ordine giudiziario. C’è una qualche differenza – per cosi dire ontologica – tra questi due fenomeni spartitori? Sul piano ordinamentale, non va certo trascurato che i componenti del Consiglio superiore della magistratura godono, in base a una disposizione di legge ordinaria (art. 5, l.n. 1/1981), di irresponsabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; ma questa immunità soggettiva – ammesso e non concesso che possa tenerli in ogni caso al riparo da possibili addebiti di corruzione – non potrebbe estendersi a magistrati compagni di corrente eventualmente concorrenti nel medesimo reato.


Con i nuovi criteri, il paradigma criminoso del concorso in corruzione non vale anche per le spartizioni correntizie nel mondo giudiziario?


 

Tornando al risvolto più tecnico della questione qualificatoria, non è certo un giornale la sede più adatta per affrontarlo (né, oltre tutto, ho un interesse personale ad assumere in un luogo improprio il ruolo di spontaneo difensore supplementare dei non pochi professori indagati). Nella misura in cui può, però, corrispondere anche a un interesse generale accennare a un problema di interpretazione della legge penale suscettibile di implicazioni ad ampio raggio, mi limito qui a esplicitare un rilievo di fondo. Si ratta di questo. L’orizzonte di senso della corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, la quale rappresenta la forma più grave di corruzione, racchiude tradizionalmente una compravendita consistente nello scambio tra l’atto venduto e il danaro o l’altra utilità corrisposti per acquistarlo. A ben vedere, è un modello di scambio così connotato che viene meno nel mero accordo spartitorio dei posti universitari o magistratuali: infatti, in questi casi lo scambio di promozioni concordate può pure sfociare (ove prescinda da criteri di merito comparativo) in atti decisori illegittimi, ma alla configurabilità di una corruzione punibile osta la mancanza di un presupposto essenziale ulteriore rispetto alla preordinata condivisione degli atti suddetti, e cioè la corresponsione di danaro o di altre utilità come controprestazione aggiuntiva ed esterna rispetto allo scambio concordato dei giudizi favorevoli sui candidati (invero tali giudizi non possono in se stessi costituire atti illeciti oggetto di compravendita e, nello stesso tempo, forma di corrispondente retribuzione per ciascuno dei protagonisti dell’accordo spartitorio).La corruzione potrebbe, invece, ben configurarsi nel caso in cui i professori commissari accettassero, appunto, danaro o altre forme di vantaggio per votare in base a precostituite intese i candidati da promuovere.

 

Se poi la magistratura volesse insistere nel portare avanti una sperimentazione giudiziaria volta a riplasmare il volto tradizionale della corruzione, ampliandone il senso e i confini sino a includervi il mero scambio di giudizi concordati all’interno di procedure di valutazione comparativa, questa innovazione interpretativa non dovrebbe essere soltanto sorretta da una motivazione giuridica adeguata e convincente: essa dovrebbe essere fatta valere esclusivamente rispetto a casi futuri, evitandone una ingiusta applicazione retroattiva.


Siamo di fronte a una torsione interpretativa escogitata per bollare e punire come “delinquenti corrotti” i commissari delle università? 


Come che sia, la questione giuridica di cui sopra meriterebbe di essere dibattuta e approfondita al di là della vicenda specifica oggetto del procedimento in corso, quale occasione di riflessione pubblica sui rischi (anche in termini di possibile discriminazione di trattamento tra categorie professionali) e sui possibili inconvenienti di un utilizzo forzato del diritto penale per scopi di moralizzazione collettiva.