La giustizia si migliora vietando ai magistrati incarichi extragiudiziari?
Andrebbero separate le esperienze che portano buon contagio da quelle che, pur rispondendo a esigenze dell’interessato, risulterebbero sterili per l’amministrazione della giustizia
La politica sembra non avere idee troppo chiare e i buoni consigli per la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e delle carriere dei magistrati si sprecano. Non c’è da stupirsi, è costume italico. Bisognerebbe, invece, che il progetto di riforma di uno dei poteri fondamentali dello Stato costituisse la sintesi politica di un serrato dibattito tecnico tra studiosi di lungo corso della materia.
Il momento è talmente disorientante che servirebbe una vera e propria “fase costituente”: la riforma dovrebbe essere in grado di ritrovare e formalizzare i “significati” che abbiamo perso. Per farlo, dovrebbe generare dalla riflessione di giuristi dotati di grande autorevolezza e prestigio personale presso la comunità di riferimento e risultare il più possibile condivisa dalle categorie interessate, in primo luogo la magistratura e l’avvocatura. Ci si asterrà pertanto dall’aggiungersi alle fila dei buoni consiglieri. Soltanto una chiosa, l’argomento è dei più spinosi: il collocamento fuori ruolo dei magistrati per andare ad assumere compiti di alta amministrazione e, più in generale, gli incarichi extragiudiziari. Il tema è trattato dai più con una certa avversione, la soluzione è tranchant: vietarli.
La scelta pecca di semplicismo. L’esercizio della giurisdizione e, più in generale, il diritto e la sua applicazione altro non sono che una forma di ingegneria sociale. Porre una regola e interpretarla comporta la comprensione dell’impatto che ne deriverà, degli effetti che si produrranno. L’individuazione dei bulloni da stringere e di quelli da allentare presuppone la conoscenza del fenomeno da regolare. E’ per questo che l’autoreferenzialità della magistratura va avversata con forza. Ne è consapevole la Commissione europea per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa che a dicembre 2019 ha approvato le proprie linee guida per “Breaking up judges’ isolation”. Gli incarichi extragiudiziari, se messi al riparo, con regole legislative predeterminate, da logiche corporative e clientelari, costituiscono un’importante valvola di comunicazione tra la magistratura e “i luoghi altri”. Non vanno pertanto vietati ma regolati. Dovrebbe essere compito della fonte legislativa tracciare un’organica e analitica “mappatura” degli incarichi ritenuti attinenti alla funzione giudiziaria perché in grado di contaminarla positivamente. Le esperienze che portano buon contagio vanno separate da quelle che, pur rispondendo a egoistiche esigenze dell’interessato, risulterebbero sterili per l’amministrazione della giustizia. Le prime sono da promuovere, le seconde da impedire.
Alla legge dovrebbe essere poi rimesso il compito di fissare i criteri da seguire ai fini dell’apprezzamento dell’attività extragiudiziaria nell’ambito della valutazione di professionalità del magistrato. Ciò fatto, l’esperienza andrà valutata per le competenze che ha effettivamente permesso di acquisire e non svalutata o discriminata per il solo fatto di essere stata svolta al di fuori della giurisdizione domestica. Si potrà così evitare di leggere in delibere consiliari che, ad esempio, lo svolgimento di funzioni giurisdizionali presso Corti sovranazionali non costituisce un’esperienza professionale da valorizzare rispetto a quella ordinaria. C’è bisogno di ritrovare la solitudine dei magistrati, di recuperare la loro capacità di “parlare con sé stessi e con gli altri”, ma non di perseguire il loro isolamento.
Carmelo Barbieri è magistrato del tribunale di Milano