Quando la politica depotenzia la costituzione. Perché é importante ripristinare amnistia e indulto
Nel nostro paese le misure di clemenza nei confronti dei carcerati hanno sempre generato discussioni e divisioni. Ma gli istituti penitenziari sono sovraffollati. Consigli per rendere politicamente accettabili queste misure
Gli atti di clemenza generale come l’amnistia che estingue il reato e l’indulto che estingue la pena, nascono e si sviluppano, fin dal diritto romano, come prerogative regie. Strettamente connesse all’auctoritas, quindi, ma anche legate all’emenda, ossia alla possibilità di ravvedimento del reo: le “amnistie pasquali”, in epoca tardo-imperiale, sono, infatti, connesse con il miracolo della rinascita di tradizione cristiana che avrebbe magicamente comportato una resurrezione morale del reo. Questa qualità salvifica dell’atto di indulgentia principis sembra in qualche modo speculare al tocco dei re taumaturghi di Bloch che, in epoca medievale e fino alla fine delle monarchie assolute, guarivano dalle scrofole o dall’epilessia.
La storia del common law inglese è forse quella che meglio permette di osservare le evoluzioni e trasformazioni del potere di “pardon” o “mercy” che nasce nella costituzione sassone (Leggi di re Ine del Wessex, 668-725 d.c.) come prerogativa del sovrano inglese, assoluta e illimitata e legata alla giustizia di equità. Da tale potere di equity e dalla prerogativa clemenziale del sovrano, tra l’altro, sembra discenda la tradizione del diritto penale minorile come basato su principi necessariamente diversi rispetto al diritto penale degli adulti (le condanne a morte dei fanciulli e delle fanciulle non venivano eseguite soltanto grazie ad atti di pardon). Tuttavia tale potere viene nel tempo limitato, prima dall’habeas corpus act (che proibisce atti di clemenza verso chi incorre nel reato di incarcerare i sudditi del re al di fuori del territorio inglese) e poi dal Bill of Rights (che rende illegale ogni atto di “sospensione” di leggi del Parlamento da parte del sovrano).
Sarà Beccaria, durante l’età della riforma, nel passaggio dai supplizi alle pene e dalla forma di potere assolutistico all’illuminismo, a formulare una prima critica al potere clemenziale, affermando che: “il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti, e che la pena non n’è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell’impunità”.
Durante il regime fascista si innesta un altro fronte di critica agli atti di clemenza, costituito dalla riflessione degli esuli antifascisti sul provvedimento di amnistia del 1934 (anno di nascita di Maria Pia di Savoia). Nella “sozza grossolanità mussoliniana”, come afferma l’articolo di fondo di Giustizia e Libertà del 28 Settembre 1934, il provvedimento è diretto proprio, nelle parole di Mussolini, a “coloro che, forse più illusi che colpevoli, si sono lasciati attrarre da evanescenti miraggi, inducendosi ad abbandonare il sacro suolo della Patria senza l’osservanza d elle norme dalla legge stabilite”…“Oh gran finezza del tiranno paesano” commenta Giustizia e Libertà. “L’amnistia lascia immodificato l’ordinamento totalitario che rende impossibile ogni benché minima libertà e sicurezza”, scrive Carlo Rosselli a Gaetano Salvemini da Londra. Insomma, l’amnistia non modifica la realtà giuridica, penale, di un ordinamento, la falsa e, nella riflessione di Giustizia e Libertà serve quasi da esca politica: gli esuli devono stare attenti “a non commettere un delitto anche minimo nei prossimi 5 anni. Immantinente vi cadrebbero sulla testa – secondo dice il decreto- anche gli anni di galera amnistiati”.
Marco Pannella nel dicembre 2013, alla marcia dei Radicali “Carceri, amnistia e giustizia” (Foto LaPresse)
Mèmore anche di questo recente passato, la discussione in Assemblea costituente su amnistia e indulto è accesa. Due sono i protagonisti, da posizioni opposte, della contesa argomentativa, Giovanni Leone e Palmiro Togliatti. Leone, riecheggia Beccaria e mostra come l’amnistia “non risponda più alla struttura attuale dello Stato” per la sua natura arcaica legata alla regalità, non più ammissibile in un regime democratico e repubblicano. Togliatti, invece (che proprio della discussa “amnistia Togliatti” del 1946, atto di natura politica, tipico della giustizia di transizione, era stato promotore) rivendica, con argomento squisitamente politico, la necessità di collegare il potere di amnistia non alla regalità, bensì alla sovranità “e se in questo momento fosse tolto alla Repubblica questo attributo, una parte considerevole del popolo penserebbe che la Repubblica vale meno della monarchia”.
Conosciamo l’esito della discussione in Assemblea costituente, la disputa sull’organo depositario della prerogativa (Assemblea nazionale, Parlamento o esecutivo e, se Parlamento: entrambe le camere o Parlamento in seduta comune) porta a una soluzione (impostasi tramite un emendamento di Bettiol) che tenta di conciliare il pericolo delle lungaggini tipiche dell’attività parlamentare con il rischio di uso strumentale degli atti di clemenza da parte del governo (“Vi sono degli esempi recenti, dei ricordi di recenti amnistie, che in verità non denunciano nel governo un’attitudine, alla elaborazione di amnistia e di indulti, molto tranquillante”, afferma Ghidini): amnistia e indulto sono concessi dal presidente della Repubblica su legge di delegazione delle Camere (art. 79 Costituzione).
È qui che inizia la storia dell’amnistia e dell’indulto nell’Italia repubblicana. Storia lunga e articolata. È ancora Salvemini, nell’articolo “Anno santo e amnistia” (Il Ponte, 1949, V-11), a parlare di “Italia, paese delle amnistie” che, dopo le amnistie motivate da ricorrenze politiche, inaugura quelle a carattere religioso, cosicché “giuridicamente il condono dei delitti sarà associato al condono per i peccati”.
L’articolo 79 della Costituzione è rimasto in vigore per quarantaquattro anni, nel corso dei quali sono state approvate più di 20 leggi di amnistia o di indulto.
Fino agli albori di quel lungo sonno della ragione garantista che è stato Tangentopoli, quando, con il dichiarato intento di limitare il ricorso agli strumenti di clemenza, entra in vigore la legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1 che modifica l’art. 79, rimettendone la prerogativa piena in capo alle due camere del Parlamento e rendendo pressoché impossibile raggiungere le maggioranze parlamentari aggravate dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera (previste per la votazione di ogni articolo e nella votazione finale). Una maggioranza addirittura maggiore rispetto a quella richiesta per modificare il testo costituzionale attraverso leggi di revisione o altre leggi costituzionali (art. 138 Costituzione). Un quorum molto particolare, come afferma il senatore Labriola, nella discussione in Commissione: “Mai fino ad ora introdotto nel nostro ordinamento per la definizione di una legge. Si tratta di un quorum «super costituzionale»” (o in-costituzionale, dato che ha contribuito ad annullare nei fatti, e nella riflessione pubblica, il ricorso a tale strumento, pur espressamente previsto nel testo costituzionale).
Aprile 1969, rivolta nel carcere di Torino (foto LaPresse)
Limitare la periodicità delle amnistie e degli indulti rispondeva, d’altronde, alla ratio insita nel nuovo codice di procedura penale appena approvato e in particolare alla nuova prospettiva dei riti abbreviati (quale vantaggio nello scegliere il processo rapido, con certa esecuzione della pena, rispetto all'attesa di una futura, ma sicura, estinzione del reato a seguito di amnistia, ovvero di una, anche parziale, estinzione della pena a seguito di indulto?).
Il risultato, però, fu il totale annientamento di entrambi gli istituti. Non, quindi, una decisione politica che proclami la incompatibilità dell’amnistia con il regime democratico, sancisca la sopravvivenza del solo indulto e la possibilità di agire con leggi di abrogazione dei reati quando questi non rispondano più alla coscienza popolare, sulla scorta delle riflessioni dotte di Leone. Ma una vera e propria rimozione (Pugiotto parla di “amnistia amnesia”), una scelta di annullamento indiretta, in un sistema parlamentare frammentato e litigioso (e al momento abbastanza inconsistente) come quello italiano. E d’altra parte la vera rivoluzione nel senso dell’annullamento di ogni prospettiva di atti di clemenza non è stata mera conseguenza della scure del quorum dei 2/3, quanto prodotto di un vero e proprio cambiamento del paradigma culturale di riferimento. L’amnistia dopo Tangentopoli diventa concetto politicamente clandestino, innominabile, quasi una bestemmia ed è, invece, carica di consenso popolare ogni posizione contraria ad atti di clemenza.
Nel corso della commissione parlamentare per le Riforme costituzionali del 1997, il tema viene affrontato nuovamente, con proposte emendative proprio del quorum richiesto dall’art. 79. L’onorevole Boato, estensore di un emendamento in tal senso, ricordò che la modifica costituzionale da cui era scaturita la formulazione dell’art. 79 ebbe luogo in un clima politico “emergenziale di allarme” che portò alla “blindatura” delle leggi di amnistia e indulto. E di blindatura si è, infatti, trattato. Dal 1992 a oggi, in 28 anni quindi, un solo indulto è stato approvato, monco della corrispettiva legge di amnistia, nel 2006.
Questa sorta di damnatio memoriae si è legata, negli ultimi anni a un concetto di gran moda nella retorica politica: amnistia e indulto sarebbero incompatibili con la certezza della pena e ne minerebbero fatalmente le basi. Il punto, come correttamente notato da Pugiotto, è che il concetto di certezza della pena è (e continua a essere) strumentalmente frainteso, adoperato in modo atecnico a significare: certezza del fatto che la persona condannata resterà (marcirà?) in prigione fino all’ultimo giorno previsto nella pena comminata in sentenza…ma così non è. Certezza della pena sul piano costituzionale è una garanzia (che dovremmo aver cara perché riguarda tutte e tutti noi) che la pena è predeterminata per legge (principio di legalità della pena) e non sarà, quindi, frutto di arbitrio; mentre la sua esecuzione è retta dal principio rieducativo (sulla scorta del quale, per esempio, non è ammissibile un ergastolo non rivedibile, vedi alla voce sentenza di condanna Viola c. Italia, diretta proprio a sanzionare il nostro sistema di ergastolo ostativo). Se anche le varie posizioni, a voler conceder loro un fondamento teorico e storico, fossero basate sull’assunto di Beccaria per cui: “La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”, sarebbe da notare, da una parte che Beccaria ha una concezione della pena meramente general-preventiva (al contrario della nostra Costituzione che considera preminente la funzione rieducativa), dall’altra che, purtroppo, da noi il castigo (che è eminentemente detentivo) raramente è moderato, con buona pace del marchese di Gualdrasco e Villareggio.
E proprio in questa prospettiva vale la pena analizzare la stretta correlazione, in un sistema panpenitenziario, come quello italiano, tra amnistia e sovraffollamento carcerario. Come accennato, la natura multiforme dell’amnistia, infatti, si è concretizzata, nella storia italiana, sia monarchica che repubblicana, in varie tipologie: dall’amnistia come manifestazione dell’indulgentia principis in occasione di eventi particolari di natura laica, ma anche religiosa (e in questo caso, cattolica, si pensi alle amnistie legate ai concili vaticani o ai giubilei): la cosiddetta “amnistia celebrativa”, alle amnistie eminentemente politiche o di transizione, cosiddette “pacificatrici”, volte a rimuovere le conseguenze di un periodo di lotte e tensioni sociali e civili (come la ricordata amnistia Togliatti del 1946 o la amnistia Nitti del 1919 diretta a condonare i crimini politici, in particolare la diserzione, commessi durante la prima guerra mondiale o ancora negli anni ’70, strettamente legate ai sommovimenti politici post-sessantottini). Infine, l’amnistia è strumento riconosciuto di politica criminale che, in Italia, tristemente significa: riduzione del danno da sovraffollamento penitenziario. Insomma, attraverso le amnistie si è garantita quella valvola di salvezza (se di salvezza si può parlare) di un sistema penitenziario in stato di costante fibrillazione. Così è avvenuto che, anche a seguito della riforma costituzionale del 1992 e dell’introduzione di un quorum estremamente aggravato, la condizione di sovraffollamento delle patrie galere abbia prevalso sulle riserve politiche in un’unica, isolata e parziale occasione.
Un'immagine del carcere di San Vittore a Milano (foto LaPresse)
Nel 2006, infatti, il livello di sovraffollamento penitenziario sfiora le 62.000 presenze (a fronte di una capienza regolamentare di circa 42.000 posti…), il Parlamento vota la legge di indulto, dopo che in commissione Giustizia alla Camera viene proposto lo stralcio dell’amnistia. Appariva, infatti, impossibile raggiungere il quorum previsto mantenendo amnistia e indulto appaiate e gli stessi proponenti scelgono di separare i due provvedimenti, ritenendo più urgente la necessità deflattiva nelle carceri (ottenibile anche con il solo indulto), rispetto all’esigenza di alleggerire il carico degli uffici giudiziari. D’altronde, come dice lo stesso proponente, Buemi, la discussione sull’amnistia deve andare avanti, dato che: “La concessione dell'indulto senza varare una amnistia costituisce un intervento zoppo, nonché irrazionale”.
L’amnistia non si farà mai. L’indulto porterà a una riduzione significativa della popolazione penitenziaria (circa 25.000 detenuti escono nei primi 5 mesi che seguono l’approvazione della legge). Serviranno 3 anni perché la popolazione torni ad attestarsi e superare le 62.000 presenze, ma in assenza di altre riforme strutturali, il tasso di sovraffollamento ricomincia a salire costantemente già dalla fine del 2006 e porta alla prima eclatante condanna in sede europea, nel caso Sulejmanovic c. Italia.
Lo smodato ricorso ad amnistia e indulto in età repubblicana e precedente alla riforma del 1992 aveva ingenerato una terza accusa rivolta agli atti di clemenza, nata nel campo dei critici del carcere e che riecheggiava il monito di Carlo Rosselli secondo cui l’amnistia era una valvola di sfogo del sistema che non modificava il paradigma sanzionatorio e consentiva all’ordinamento di mantenersi inalterato. La vera sfida al dogma carcerario, fatta di depenalizzazione e di interventi di ampliamento dell’accesso alle misure alternative, così come la costruzione di una prospettiva sanzionatoria non carceraria, non traeva altro che detrimento da amnistie e indulti che, inoltre, interrompevano bruscamente gli interventi riabilitativi, con conseguente probabile ricaduta nel reato. Su quest’ultimo punto, come analizzato da Luigi Manconi e Giovanni Torrente, in un’articolo del 2007, i numeri sembrano smentire la previsione. La ricerca condotta nei primi 6 mesi dalla legge mostrava, infatti, come l’indulto non avesse aumentato il tasso di recidiva, che si mantenne relativamente basso.
Da quell’intervento del 2006 molta acqua è passata sotto i ponti del sistema penitenziario italiano. Molte condanne della Cedu all’Italia per trattamento disumano e degradante collegato al sovraffollamento e alle condizioni detentive, un intervento del 2010 (tornato oggi alla ribalta) dell’allora ministro della giustizia Alfano, cosiddetto “svuotacarceri” (che non seppe mantener fede al soprannome), una procedura pilota sempre in sede europea contro l’Italia nel 2013: la arcinota sentenza Torreggiani, gli Stati Generali per l’Esecuzione Penale, il messaggio alle Camere del Presidente Napolitano (che invocava anche mirati provvedimenti di clemenza generale), l’introduzione della tutela rimediale per compensare i detenuti e le detenute per trattamenti disumani e degradanti e prevenire le lesioni dei loro diritti, una riforma dell’ordinamento penitenziario falcidiata nello spirito e negli intenti. Una sola cosa è rimasta pressoché costante, ossia costante nell’aumento (con una leggera flessione nel 2014 e nel 2015, principalmente dovuta agli interventi sulla custodia cautelare e alla sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità della Fini-Giovanardi, a riprova del fatto che una depenalizzazione in ambito di reati di droga sarebbe, da sola, una riforma capace di assorbire grande parte della popolazione detenuta attuale): il tasso di sovraffollamento nelle patrie galere.
Oggi l’emergenza penitenziaria lo ha fatto scendere drasticamente, dalle 63.000 presenze di fine febbraio alle circa 53.000 attuali, in 3 mesi (sempre 3.000 in più della capienza regolamentare che andrebbe comunque rivista secondo le necessità che il Covid-19 impone). Più di un indulto, più di un’amnistia…
Eppure, i cancelli delle galere si stanno riaprendo e, senza interventi normativi adeguati, il sovraffollamento è destinato a risalire vertiginosamente. Così come vertiginosamente salirà il carico di lavoro degli uffici giudiziari nella fase 3 della giustizia in Italia.
In questo contesto, il 2 aprile è stata presentata alla Camera la proposta di legge n. 2454, d’iniziativa dei deputati Magi di +Europa, Bruno Bossio del Pd, Giachetti e Migliore di Italia viva, non per proclamare un’amnistia o un indulto, ma per riformare il testo dell’art. 79 della Costituzione. La riforma costituisce quello che, in un volume curato da Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto è stato definito “un rinnovato statuto di amnistia e indulto”. Il “rinnovato statuto” consiste in una delimitazione del campo di azione dei provvedimenti clemenziali che, da una parte, risponde alle interpretazioni della Corte Costituzionale e relative a questi strumenti, dall’altra pone un limite espresso alle amnistie cosiddette “celebrative”. La proposta, infatti, riprende una discussione già svolta in sede di assemblea costituente e legata alla necessità di cesura rispetto al passato monarchico, proprio in relazione alle amnistie “celebrative” che cercava di assicurare il carattere “eccezionale” dei provvedimenti. E in effetti tutti gli interventi e le proposte modificative (in senso restrittivo) in età repubblicana giocano su due fronti: l’espressa previsione di un campo di eccezionalità e straordinarietà dell’operatività dei provvedimenti di clemenza attraverso un’espressa dizione oppure la previsione di quorum qualificati o iperqualificati (e in fondo squalificanti), come nella proposta, divenuta poi legge costituzionale, del 1992.
L’attuale proposta di legge sceglie di utilizzare entrambe le strategie: da una parte, infatti, propone di delimitare espressamente l’ambito di operatività di amnistia e indulto attraverso il riferimento alle “situazioni straordinarie” e quindi imprevedibili e alle “ragioni eccezionali” connesse all’interpretazione e alla decisione politica. Dall’altro prevede un quorum qualificato: la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera, pari a quello richiesto (in seconda votazione) per modificare la Costituzione. Il nuovo statuto, nelle parole del primo firmatario, Riccardo Magi, che ha risposto ad alcune nostre domande in un colloquio per questo articolo, permette di garantire che il testo costituzionale (che, lo ricordiamo, mantiene espressamente il potere di clemenza) non sia reso ineffettivo, nella prassi, dalla previsione di un quorum impossibile da raggiungere e al contempo avvince la fattispecie nell’alveo della straordinarietà ed eccezionalità contestuale. L’abbassamento del quorum, insomma, serve a restituire effettività alla scelta costituzionale di prevedere, come strumenti di politica criminale, sia l’amnistia che l’indulto.
La previsione di un quorum così alto (conviene specificare che a livello globale, secondo uno studio del 2015 sul potere di amnistia nei paesi membri delle Nazioni Unite, sono solo 14 su 186, gli stati che prevedono maggioranze qualificate per le leggi di amnistia e, per la precisione: Albania, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador Egitto, Grecia, Moldavia, Filippine Romania, Serbia, Turchia e Uruguay, oltre l’Italia…), infatti, non è coerente con la stessa materia degli atti di clemenza in cui si sono da sempre manifestate, in Italia, forti resistenze identitarie, non necessariamente partitiche, ma trasversali e talvolta manifestatesi all’interno degli stessi gruppi parlamentari. Come correttamente nota la relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale, presentato al Senato nel 2016 (primo firmatario Luigi Manconi), paradossalmente, a normativa vigente, proprio il quorum così aggravato potrebbe portare, in sede di adozione di un provvedimento di amnistia o indulto, al ritorno di un “effetto ‘consociativo’ in cui in cui ciascuna parte lo approva pro domo sua”. Possiamo anche ipotizzare che, nel quadro normativo attuale, non sia affatto annullato il rischio di amnistie celebrative, anzi sembra che queste ultime siano le uniche verosimili, legate, come sono, a un consensus trasversale, impolitico (o a-politico), volubile e bonaccione. L’assoggettamento a quorum possibili permette invece di riferirsi a una maggioranza “non occasionale, capace di esprimere una intellegibile politica del diritto”.
Anche a queste considerazioni si rifà l’odierna proposta di legge costituzionale che ha l’intento precipuo, come afferma Magi, da una parte, di restaurare l’ordine costituzionale in tema di amnistia e indulto, rendendo nuovamente possibili questi strumenti, dall’altro di limitarne la portata e l’attuabilità, eliminando le cosiddette amnistie celebrative (di matrice laica o religiosa).
D’altronde anche gli organi internazionali hanno recentemente rivalutato il ruolo delle leggi di amnistia nel necessario compito di agire repentinamente sul sovraffollamento penitenziario. Una raccomandazione del 1999 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa mostrava, infatti, di accogliere la critica agli strumenti di clemenza come mezzi efficaci per combattere il sovraffollamento, suggerendo l’uso di strumenti personalizzati, come le misure alternative. Così ancora il Libro Bianco sul sovraffollamento penitenziario del Consiglio d’Europa del 2016, indicava chiaramente la preferenza per depenalizzazione e misure alternative al carcere, riportando una critica all’uso delle amnistie formulata dal CPT (il Comitato per la Prevenzione della Tortura) e relativa al rischio di recidiva in caso di amnistie non accompagnate da adeguata preparazione e da strutture di supporto esterne. La pandemia di Covid-19 ha portato il Consiglio d’Europa a riconsiderare l’amnistia come una delle alternative possibili per sanare un sovraffollamento penitenziario europeo che costituisce un nervo scoperto nella gestione sistematica e sostenibile del virus.
D’altra parte, quando si commette una violazione di una norma internazionale di valore assoluto come l’art. 3 della Convenzione EDU, ossia il divieto di trattamenti disumani e degradanti (e l’Italia è pluri-recidiva, pluri-condannata e pluri-criminale), uno strumento di immediata interruzione della violazione in atto deve essere possibile. In Italia, la storia recente mostra come a fronte di tutti gli interventi sopra ricordati, un vero sfollamento delle carceri si è avuto solo a seguito di una pandemia dilagante. Ora, però, le pandemie non si possono calendarizzare o sottoporre a quorum qualificati, gli interventi di politica del diritto sì.
Per aggiungere un ultimo argomento, di natura squisitamente utilitaristica, il Next Generation EU, il documento presentato dalla Commissione Europea sul recovery plan da 750 miliardi di euro tra prestiti e sussidi in quattro anni, di cui lo stato italiano sarà uno dei principali beneficiari, è sottoposto ad alcune condizioni; una su tutte qui interessa: la risoluzione della lentezza della giustizia. Civile, amministrativa e penale. Non sfuggirà come il rendere politicamente concepibile non solo l’indulto, ma anche l’amnistia (che, estinguendo il reato, porta nel DNA proprio l’alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari) sembra, controfattualmente rispetto a ogni ragionamento di cultura politica (o meglio di ideologia panpunitiva) oggi dominante, particolarmente appetibile. E anche se siamo ben consce del fatto che quello dell’homo economicus, perfettamente razionale e utilitarista, sia un mito bello e buono, forse questo è il momento più adatto per ragionare intorno alla rifondazione costituzionale di amnistia e indulto.