Dignità alla giustizia
Dietro la magistratura del rancore c’è la degenerazione delle correnti. Idee per sconfiggere il carrierismo
La questione morale della magistratura italiana e del suo sistema di autogoverno si pone con forza. Recentemente il presidente della Repubblica, vertice del CSM, ci ha ricordato quanto sia necessario e urgente che il potere giudiziario recuperi piena credibilità, condizione essenziale perché le decisioni vengano rispettate e, dunque, eseguite. E’ necessario però comprendere le ragioni di questo crepuscolo per poter decidere quali interventi riformatori deliberare. Perché per anni la gestione delle prerogative dell’organo di autogoverno dei magistrati è stata improntata a logiche non solo correntizie ma addirittura clientelari, facendoci assistere ad un vero e proprio mercimonio della funzione? Da più parti si sente dire, probabilmente non senza ragione, che la causa andrebbe ritrovata nel carrierismo che ha infettato la magistratura e i magistrati. La domanda è: perché e da che cosa il carrierismo è stato generato? A questa domanda non si sente offrire risposte. Di solito, quando all’interno di un gruppo, di una categoria, in tanti si comportano male anziché bene, si muovono scompostamente piuttosto che stare fermi sentendosi appagati dalla funzione che svolgono, la ragione è sistemica e non individuale. E’ troppo facile convincersi che la colpa si trovi nell’amoralità di questo o quel membro del Consiglio Superiore o di alcuni capi corrente. Se la base non avesse abbracciato questa logica, gli spregiudicati consiglieri e capi correnti avrebbero avuto vita breve. Invece non è stato così; il conformismo, purtroppo, è assai seducente. Pare piuttosto che a tanti il luogo dove si trovavano non piacesse, volevano altro, anche venendo a patti con la propria moralità. Questo luogo era la corsia della giurisdizione.
Il fatto è che, fatta eccezione per alcuni settori, la giurisdizione, la sua fanteria, versa da tempo in una condizione di grave marginalità. Una buona parte delle questioni di cui si occupa dovrebbero esserle sottratte, perché irrilevanti, per trovare delle modalità altre di risoluzione, dai sistemi di mediazione a forme di definizione in sede amministrativa anche mediante un radicale percorso di depenalizzazione. Il numero degli avvocati in Italia dovrebbe essere ricondotto a razionalità: attualmente è di oltre 240 mila mentre nella vicina Francia è pari a poco più di 65 mila. Plastica dimostrazione di quanto si va dicendo si trova nelle intollerabili condizioni in cui versa da anni la Corte di cassazione, posta al vertice del sistema. Il numero dei procedimenti civili definiti dalla Corte nel 2019 è di circa 33.000 mentre il numero di quelli penali è di poco superiore a 50.000. Siamo oltre gli 80 mila procedimenti in un anno. La stragrande maggioranza di questi non avrebbero dovuto giungere in Corte, semplicemente perché non meritevoli del vaglio del giudice più “alto”. Giusto per alzare lo sguardo da terra, nell’affine Francia, sempre nel 2019, il numero dei ricorsi decisi dalla Cour de cassation è stato di poco superiore 24.000, di cui 17.000 circa nel settore civile; mentre i casi pervenuti dinanzi al Bundesgerichtshof, la Corte federale tedesca, nel 2019 sono stati poco più di 5.000 nel settore civile e circa 3500 in quello penale. Ci si ostina a non vedere che una modifica della norma costituzionale, un unicum nel contesto europeo, che attribuisce il diritto di sottoporre alla Corte di ultima istanza ogni caso, dal più banale al più complesso, con conseguente dovere di quest’ultima di pronunciarsi, è urgente e ineludibile per riconsegnare dignità al giudice supremo e restituirlo al suo ruolo fondante di garante dell’uniforme interpretazione della legge.
Se queste sono le condizioni in cui si trova il vertice la base non sta meglio: il numero dei procedimenti civili pendenti dinanzi agli uffici giudiziari è pari a circa 3.300.000, l’Italia è terzultima per la durata dei processi civili e commerciali in primo grado, nel nostro Paese per una sentenza di secondo grado occorrono 843 giorni, e per il terzo grado 1.299 giorni, i tempi più lunghi fra i principali Stati dell’Unione. Sono oltre un milione e mezzo i procedimenti penali pendenti dinanzi agli uffici giudicanti, di cui molti per reati di modesta entità, che andrebbero risolutamente depenalizzanti perché privi di ogni incidenza nel contrasto della criminalità.
Tutto questo genera demotivazione e frustrazione. Stiamo assistendo a un processo analogo a quello che da anni ha tragicamente colpito la scuola e l’università. La degenerazione correntizia ha indotto poi gli esclusi, e non solo, ad elaborare risentimento e vittimismo ed un immobilistico disimpegno per pretesa superiorità morale. Il carrierismo si sconfigge invece restituendo dignità e centralità alla giurisdizione, recuperando il suo senso ultimo anche attraverso una riforma del sistema di accesso dei nuovi magistrati che consenta di ritrovare spinte motivanti e porre un freno alla grave burocratizzazione in atto. Per farlo le linee di riforma dovrebbero dispiegarsi nel solco della magistratura come potere prim’ancora che come servizio, con le conseguenti responsabilità che ne derivano. Il carrierismo si sconfigge ricostruendo la giurisdizione come un luogo dal quale non vale la pena muoversi.
Carmelo Barbieri è magistrato del Tribunale di Milano