Lui, Aristide Carabillò, meglio conosciuto come il principe del Foro, se la cava con un richiamo a Pitagora e davanti al deserto del Palazzo di Giustizia sostiene che “la verità ormai non la danno né le chiacchiere né i tribunali: la danno solo i numeri”. Statistiche ormai seppellite negli scantinati del ministero a Roma dicono che i processi penali arretrati hanno sfiorato, alla fine del 2019, la mastodontica cifra di un milione e mezzo. Se provate ad accatastare i fascicoli uno sopra l’altro vi troverete di fronte a una montagna alta quanto il Vesuvio. Sotto quella montagna di carte ci troverete di tutto: avvisi di garanzia, mandati di comparizione, decreti di archiviazione, ordinanze di rinvio a giudizio, memorie difensive, atti di imputazione, perizie giurate, sentenze di primo grado, motivazioni di appello, ricorsi in Cassazione. Ma ci troverete soprattutto uomini, drammi, lacrime, tribolazioni e rabbia. Sono almeno tre milioni di italiani che, in questo spaventoso anno di sventura, aspettano giustizia. La implorano le cosiddette parti lese, cioè le vittime e i familiari delle vittime: tutti quelli che hanno avuto un danno e sperano di ottenere quanto prima un risarcimento. E la reclamano anche i reprobi: quelli che sono stati segnati a dito dagli investigatori come responsabili del misfatto e sono stati appesi al palo della gogna; quelli che sono finiti in carcere o ai domiciliari, che sono stati già interrogati dal pubblico ministero e poi dal giudice per le indagini preliminari e ora chiedono con insistenza che un collegio giudicante li liberi da questo calvario senza fine, senza tempo, senza confini. Dentro o fuori, poco importa. L’importante è uscirne vivi. Ma i giudici dove sono?
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