Quoque tu”. Qualcuno, spingendosi oltre il confine della retorica, ha evocato Bruto, le Idi di Marzo e l’agguato a Giulio Cesare, nel 44 avanti Cristo. Paragone esagerato e forse anche inopportuno. Perché nell’ultimo atto del dramma che ha spinto il Consiglio superiore della magistratura a decretare la defenestrazione, per raggiunti limiti di età, del reverendissimo Piercamillo Davigo non c’è stato alcun agguato e non c’è stato nemmeno un complotto. E’ successo semplicemente che al momento della votazione ciascuno dei consiglieri, laico togato poco importa, ha messo sul piatto le proprie paure, i propri sentimenti, i propri rancori, la propria coscienza. Nel momento in cui la credibilità di Palazzo dei Marescialli precipitava verso il fondo senza mai toccare il fondo era fin troppo prevedibile che la corrente di Area, quella dei progressisti, non trovasse né il coraggio di voltare le spalle al Santissimo Fustigatore né la forza di neutralizzare il pollice verso del vicepresidente David Ermini, quasi certamente sintonizzato con il Quirinale, e dei vertici della Cassazione: infatti tre di loro si sono astenuti. Ed era altrettanto prevedibile che la corrente di Magistratura Indipendente, quella del renziano Cosimo Ferri, e la corrente di Unicost, quella del reprobo Luca Palamara, pareggiassero i conti con l’ex “doctor subtilis” di Mani pulite che, come membro della “Disciplinare”, era già pronto a sfoderare la spada dell’inquisizione per colpire tutti i magistrati sorpresi dal trojan a traccheggiare, con Palamara, sulle nomine prossime venture del Csm.
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