Il grande buco nero dei beni sequestrati alla mafia
Dalla metà degli anni Novanta sono decine di migliaia i beni passati allo Stato. Di molti si è perso il controllo. Un caos che si presta alla spregiudicatezza di personaggi come Maurizio Lipani che usava come un bancomat personale le aziende confiscate ai mafiosi
Il disinvolto amministratore giudiziario, e noto commercialista palermitano, Maurizio Lipani usava come un bancomat personale le aziende sequestrate e confiscate ai mafiosi o agli imprenditori sospettati di avere fatto affari grazie all'aiuto dei boss.
Il condizionale garantista non serve perché è stato lui stesso a confessarlo ai magistrati, aggiungendo, però, che si trattava solo di anticipi sulle parcelle che tardava ad incassare e che, una volta liquidate, avrebbe restituito il maltolto. Il punto è che il giochetto dei prelievi, secondo l'accusa, andava avanti da un decennio e favoriva anche la moglie che l'amministratore aveva voluto accanto sé nella gestione dei beni.
E così stamani la Procura di Palermo e la Direzione investigativa antimafia gli hanno sequestro un patrimonio che vale oltre un milione e 200 mila euro. A tanto ammontano gli ammanchi complessivi. Per ripianarli gli hanno tolto tutto: case, terreni, magazzini, macchine e persino una barca che da sola vale quasi 90 mila euro. Il lavoro non gli mancava visto che sono decine le amministrazioni giudiziarie che i Tribunali nel tempo gli hanno assegnato.
È una storia che già così vale i titoli dei giornali, ma è altrove che bisognerebbe guardare, concentrandosi sul sistema di gestione dei beni e sui controlli che fanno acqua. I guai di Lipani sono stati scoperti indagando su un complesso di beni che gli Agate, boss storici di Mazara del Vallo, avrebbero continuato a utilizzare nonostante i provvedimenti di sequestro e confisca. Troppo vistosa la loro presenza per non essere notata dagli investigatori che battono in lungo e in largo la Sicilia a caccia dei mafiosi. Se gli Agate fossero stati più discreti forse il pentolone maleodorante non sarebbe stato scoperchiato. Ed è invece è venuto fuori un mare magnum di illegalità. Dalla metà degli anni Novanta, quando si decise di combattere la mafia con le misure di prevenzione patrimoniali, sono decine di migliaia i beni passati allo Stato. L'Agenzia nazionale per i beni confiscati, che fa capo al ministero dell'Interno, ne ha in mano oltre 17 mila di cui si finisce per perdere il controllo. La legge prevede l'assegnazione e il riutilizzo dei beni a fini sociali e nell'interesse della collettività. A oggi dei 6.125 immobili disponibili solo poco più di 1.400 hanno trovato nuova vita in nome di una legalità sbandierata e nei fatti poco praticata. L'Agenzia si è convinta a pubblicare un bando per l'assegnazione, la cui scadenza era stata fissata a fine ottobre, ma è stata prorogata a metà dicembre. Ci si è resi conto che serviva più tempo per orientarsi in mezzo allo sfascio di immobili ormai fatiscenti, edifici abusivi, molti sconosciuti agli stessi amministratori giudiziari che hanno l'onere di gestirli, alcuni ancora occupati da familiari di boss a cui sono stai confiscati.
Insomma un caos che si presta alla spregiudicatezza, così la definiscono gli investigatori, di personaggi come Lipani che senza avere alcuna autorizzazione prima dai giudici e poi dall'Agenzia prelevava soldi in contanti, faceva investimenti personali, liquidava parcelle alla moglie.
Di beni confiscati si torna a parlare ogni qualvolta scoppia uno scandalo, piccolo o grande che sia, come quello che ha travolto l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, condannata in primo grado e radiata dalla magistratura. Ma il sistema della gestione, inefficiente prima ancora che vengano fuori profili penalmente rilevati, resta in piedi e i beni dello Stato vanno in malora. Un enorme patrimonio a perdere.