Detenuti trascurati, numeri confusi e poca attenzione ai dispositivi di protezione. Per evitare rivolte la pandemia va gestita coinvolgendo i detenuti e le loro famiglie, senza dimenticare volontari e professionisti che lavorano negli istituti. Il modello lombardo e l’esempio di Medici senza frontiere
“Chi è detenuto e ha sintomi non lo dice, se riesce li nasconde. Perché se no ti tolgono anche le chiamate, non ti fanno andare in sala colloqui. Nessuno ha pensato a organizzare soluzioni alternative, né - nel nostro caso – sono state incentivate le videochiamate. Se noi familiari sappiamo poco di cosa succede, i nostri cari dentro sanno ancora meno. Sono tutti in cella, le uniche informazioni che arrivano loro sono quelle dalla tv. Anche solo spiegare qual è la situazione, quali sono i veri numeri dei contagiati, basterebbe a tranquillizzarli un po'”. Quello che dice al Foglio Federica è forse uno dei punti cruciali che riguarda il tema della diffusione del Covid nelle carceri italiane. Suo fratello è stato trasferito nel penitenziario di Busto Arsizio da quello di Opera durante la prima ondata. E lei fa fatica a sapere come sta, cosa sta succedendo dentro, quali sono i risultati dei tamponi. Il ministero non fornisce numeri ufficiali e l'amministrazione che dovrebbe tranquillizzare e informare, “non ci dice niente”, si lamenta.
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