Un'altra giustizia è possibile
Avvicinare il male e “ripararlo”. Per chi l’ha compiuto e per le vittime. Memorie (e pensieri) del criminologo Ceretti
"Professo’, ogni sera, prima che io mi addormenti, il diavolo viene e mi accarezza i capelli”. Una mattina d’autunno del 2016, in una cella del Due Palazzi di Padova, si sentì rispondere così da un detenuto. Lo avevano chiamato per una mediazione nel conflitto tra due carcerati, ormai fuori controllo. Non era certo la prima volta che oltrepassava i cancelli di una prigione, fa parte del suo lavoro, dei suoi molti lavori. Uno di quei lavori che si scelgono, o arrivano, per un’intima necessità. Sono lì che attendono a ogni passo del cammino. Non era la prima volta e in vita sua aveva già sentito di tutto, tragedie, esplosioni di rabbia e dolore. Le forme del male. Ma quel diavolo silenzioso e carezzevole se l’è portato dentro, “è una risposta che sento anche mia”. Così l’ha messa a titolo di un libro straordinario, che racconta il suo lavoro e la sua vita: Il diavolo mi accarezza i capelli - Memorie di un criminologo. Adolfo Ceretti è un criminologo di fama mondiale, professore ordinario alla Bicocca di Milano e visiting professor all’Università Federale di Rio de Janeiro. Saggista, consulente di tribunali e istituzioni, collaboratore in disegni di legge innovativi in tema di giustizia. Nelle sue tante vite ce n’è una che gli è particolarmente cara: l’idea di giustizia riparativa, che ha contribuito a introdurre in Italia e poi a rendere operativa.
“Il diavolo mi accarezza i capelli”. Il libro del criminologo e docente Adolfo Ceretti, che ha portato in Italia la giustizia riparativa. Una storia di idee
Qualche giorno fa il ministro Marta Cartabia, esponendo in commissione Giustizia della Camera il suo programma di lavoro ha parlato, oltre che delle riforme richieste dall’Europa per il Netx Generation Eu, anche di carcere: “Non è l’unico modo per scontare la pena”. E ha detto anche che il tempo è maturo per “aumentare il ruolo della giustizia riparativa”. Un cambio di prospettiva netto, rispetto agli ultimi anni, che lascia intravvedere uno spiraglio: un’altra giustizia è possibile. La giustizia riparativa è come il mare d’inverno, un concetto che nessuno considera. Chi si occupa professionalmente di queste cose, soprattutto nell’ambito dell’esecuzione della pena, sa di cosa si tratta, ne conosce prospettive di utilizzo e limiti. Ma nella maggior parte delle persone spesso prevale una generica confusione, l’idea che sia uno strumento di pena alternativa. Adolfo Ceretti ha dedicato molta della sua vita professionale e accademica, sempre rischiosamente vicina al male e a un bisogno personale e civile di porvi rimedio, alla giustizia riparativa. E’ una metodologia extragiudiziale, che non entra nei processi, ma attuata in disciplinato rapporto con i tribunali e i servizi sociali preposti. Serve a costruire un percorso differente, a leggere il reato attraverso le persone che lo hanno commesso e subìto. Dialogo, incontri (quando diviene possibile) fra colpevoli e vittime di reati più o meno gravi (si va dall’omicidio alle liti di condominio) in base a una serie di modelli mutuati in parte dalla psicologia, in parte dal metodo analitico, in parte da esempi alti e che hanno segnato la storia, come la Commissione per la verità e la riconciliazione di Desmond Tutu. Perché ci sono i carnefici, ma ci sono anche le vittime: che dalla giustizia ordinaria possono avere al massimo, se va bene, la punizione del colpevole. Ma quasi mai la possibilità di ricostruire una propria normalità, uscire dalla gabbia in cui il torto subìto li ha inchiodati. Basterebbe l’esempio delle vittime del terrorismo per chiarire il concetto. Dall’altra parte delle sbarre, ci sono colpevoli che spesso non hanno mai nemmeno compreso, “visto”, giudicato il loro comportamento. Un giorno usciranno dal carcere, non usciranno mai da se stessi. Esempi minori ed esempi eclatanti. “Ceretti, avevi ragione, non era una cazzata quella che mi avevi proposto. Ne valeva la pena”. Se lo sentì dire da Renato Vallanzasca, che ha trascorso in carcere più di metà della sua vita, ma mai prima di allora era riuscito a pensare a se stesso come a un autore di crimini, e come a un uomo che poteva cambiare.
Adolfo Ceretti, “Gingio” per chi lo conosce e gli vuole bene, e tutti quelli che lo conoscono gli vogliono bene, questa idea è come l’avesse sempre coltivata, da quando studiava Giurisprudenza alla Statale di Milano. Così come fa parte della sua sensibilità, una sensibilità estrema, rabdomantica, la percezione del male e dell’ingiustizia. E’ pieno di Maestri (in maiuscolo) o di padri, il libro di Ceretti. Il suo, un rapporto muto e doloroso in una famiglia tradizionale e borghese, di cui racconta senza precauzioni. E gli altri. Il primo fu il magistrato Guido Galli, con cui voleva laurearsi e che fu ucciso quasi sotto i suoi occhi in un corridoio della Statale, nel 1980, dai terroristi di Prima Linea. Il lutto che ha deciso per lui, e lo ha portato a cercare Giandomenico Pisapia, che lavorava al nuovo Codice di procedura penale e che lo volle come assistente, “l’ultimo puledrino della mia scuderia”. O Mario Gozzini, “un rivoluzionario”, che nel 1986 aveva varato la legge sul carcere e le pene alternative, indicandogli un percorso di lavoro dentro e fuori dai luoghi di reclusione. E una riflessione scientifica e accademica diversa, negli anni in cui la criminologia era solo una tecnica del darwinismo sociale o una branca ideologica delle sociologie di sinistra.
Per il ministro Cartabia il carcere “non è l’unico modo per scontare la pena”, e spazio alla giustizia riparativa. Dopo gli anni giustizialisti, si cambia
Non è un libro semplice, quello che Gingio Ceretti ha scritto (in collaborazione con Niccolò Nisivoccia, pubblicato a inizio pandemia dal Saggiatore). Per due motivi. Il più banale è che sono molti libri insieme. C’è la storia senza filtri della sua vita, compreso un ’68 vissuto a distanza per il rifiuto delle ideologie e della violenza, lui che vedrà ucciso il suo primo Maestro. C’è molto della storia della giustizia in Italia; c’è la riflessione teorica, c’è la critica dei sistemi giudiziari e carcerari di mezzo mondo. Ci sono le incursioni sul campo nella guerra delle Farc, del Fronte Polisario, delle carceri brasiliane, gli incontri straordinari nel Sudafrica pieno di vita e lacerazioni del post Apartheid. All’improvviso possono comparire come da altri mondi Boy George incontrato in una festa a Londra o Claudio Abbado. O giornate di epifania perfetta sulle colline di Città del Capo. Il secondo motivo, più difficile da dire in parole, è che Ceretti scrive come vive, senza pelle, con una profondità e un rimescolio continuo (le sue malattie, la sua famiglia, gli incontri, i dolori e sprazzi improvvisi di gioie) da cui spesso non è facile tenere le distanze, separare ciò che è prima persona da ciò che è riflessione, dottrina giuridica e sociologica. Per questo è un libro importante, che farebbero bene a leggere non solo gli addetti e i politici, ma anche i romanzieri. Ad esempio quando racconta dei suoi incontri con i ragazzi nei tribunali e nelle carceri minorili, l’urgenza di entrare in un dialogo non fittizio, le volte in cui ci è riuscito e quelle no. O quando racconta, da vero scrittore, il cambiamento che ha provocato nel suo modo di percepire e giudicare lo sguardo in un tribunale alle “mani di un condannato”. Un ex terrorista col viso di un ragazzino. Mani che avevano ucciso. “A fianco di quelle mani vidi personificarsi la vittima, la ‘sua vittima’, che fino a quel momento era stata solo un concetto astratto lontano”.
Un pezzo importante della storia di Ceretti, forse il più noto anche alle cronache, è il lungo, faticoso, percorso di giustizia riparativa tra alcune vittime del terrorismo e alcuni loro carnefici. C’è di mezzo un altro maestro, il gesuita del San Fedele di Milano Guido Bertagna che lo coinvolse nell’avventura culminata in un libro incredibile, o impossibile, il Libro dell’incontro, un’opera collettiva composta da vittime e responsabili della lotta armata. Di mezzo c’è sempre il personale: tra loro c’era Sergio Segio, l’assassino di Guido Galli. Ci volle tempo e una tensione psichica allo spasimo per poter parlare con il proprio “nemico”. Fa parte di quel “demone che dorme dentro di noi” la cui scoperta, nelle condizioni più diverse della vita, è così essenziale, come una porta che apre su abissi o a nuove vette.
Riconciliare vittime e colpevoli si può. L’Italia non lo ha mai fatto, dal terrorismo ai reati comuni. Così è nata una società della paura e vendicativa
Non c’è solo il terrorismo. Le prigioni di tutto il mondo sono piene di diavoli banali e comuni. La nostra società è piena di vittime non ascoltate, di vite interrotte. Possono essere i contesti mafiosi, possono essere le liti aziendali da comporre (ci lavorò, dentro una banca come Unicredit al tempo di Alessandro Profumo, per un codice di conciliazione per i dipendenti). C’è la vicenda di una ragazza di buona famiglia cui un coetaneo aveva rubato il cellulare sul tram. L’aveva inseguito, raggiunto, riempito di botte, fatto arrestare. Poi si era chiusa in casa in un silenzio di morte, tutti pensavano che fosse per la paura, il danno subìto. Invece era stata la scoperta di quel potenziale di violenza dentro di lei. Ne uscirono insieme, lei e il suo ladro. Riuscirono a incontrarsi. A vedersi.
E siamo al cuore della questione. Uno dei pregi del libro è rimettere al centro la nostra storia, riannodando i fili di percorsi non compiuti. L’Italia (Ceretti di questo non parla direttamente) è un paese che da decenni non ha “riparato” le sue ferite. Gli anni del terrorismo con le vittime rimaste inascoltate, colpevolmente dallo stato, rinchiuse nel ruolo assegnato e dimenticato. I terroristi, impossibilitati a capire se stessi. I delitti di mafia. Poi una lunghissima stagione giudiziaria sempre condotta con l’unica idea di sorvegliare e punire, e una crescita smisurata nell’opinione pubblica di un senso di paura, spesso ingiustificato, di un desiderio vendicativo (populismo giudiziario, diciamo spesso) e di una separazione securitaria tra persone e persone, luoghi e luoghi che ha prodotto gli esiti noti di una società condizionata dalla paura. Con le conseguenze politiche che hanno condotto alla stagione giustizialista del buttiamo la chiave e del risentimento continuo. Un fenomeno mondiale, ovviamente. Paesi come il Brasile, che Ceretti ama proprio per quello che noi, solitamente, non capiamo e temiamo: l’assenza o il rimescolamento della storia, una diversa percezione dei corpi, la promiscuità assoluta. Ma i paesi occidentali, quanto a violenza e paura, non sono da meno. In tutti questi decenni in cui non si è saputo “riparare”, si sono come perduti maestri e percorsi diversi: sul processo penale, sul carcere ridotto a discarica sociale, sulla riflessione attorno alla giustizia. Così si parla anche di luoghi che non sono carcere, che sono le città con tassi di violenza esplosivi e che tutte le statistiche del mondo sanno non poter essere contenuti solo con muri più alti e sbarre più forti.
Una vita intensa tra delitti, carceri brasiliane, assassini seriali di donne, liti di condominio. La luce del metodo Tutu. Dovrebbero leggerlo gli scrittori
Gingio Ceretti non è un criminologo da talk-show, categoria pessima. E’ stato perito in importanti processi che hanno agitato l’opinione pubblica ma non troverete il gossip, il dietro le quinte. Troverete la riflessione sul caso di Erica e Omar, la sua atipica e infernale tipicità, ma anche sulla possibilità di una redenzione cui nessuno voleva credere (c’entra un padre, anche qui). Troverete un accenno al complicato rapporto con Vallanzasca, ma solo a confermare il paradosso della pena che riguarda migliaia di individui: un uomo può passare la vita recluso senza mai arrivare a riflettere su che cosa lo ha condotto lì. Senza mai aver dialogato con se stesso. Senza mai aver convocato dentro se stesso il suo “parlamento interiore”, come lo definisce Ceretti con un’immagine magnifica. Ognuno di noi, anche di noi che non commettiamo reati, e persino chi non ha un’educazione morale e nemmeno un’etica primitiva (i viaggi di Ceretti in certe prigioni sudamericane sono scoperte terribili) possiede una serie di voci, di immagini, di riferimenti con cui dialoga. Fossero solo la madre, un amico. Convocare quel parlamento, liberarne la voce, è il primo passo per riconoscere sé e i torti, per riparare insieme “assassino e città”.
Può essere vero persino nelle condizioni più estreme. Da anni Ceretti lavora a un progetto con l’Università di Rio: sta realizzando uno studio, basato su interviste a criminali, spesso assassini, dentro istituti di pena specializzati nella detenzione di chi compiuto reati contro le donne: violenze, stupri, omicidi. Spesso seriali. L’irrecuperabile. Ma che voci sentivano dentro? Cosa li ha spinti? Quali le cause? E che voci sentono, o non sentono, adesso? Dov’è il loro parlamento interiore? Sono pagine incredibili e drammatiche. Ma l’idea, in un paese così violento anche nella dimensione dei rapporti tra sessi, di far parlare per la prima volta queste persone indica come ci sia una necessità di comprendere i fenomeni profondi, se si vuole uscirne, cambiare. La stessa cosa prova a fare, nelle sue molte vite, cercando una delle riconciliazioni più difficili del mondo, tra palestinesi e israeliani vittime di reciproche violenze; o entrando a suo rischio dentro carceri colombiane grandi come paesi e in cui i detenuti sono l’unica legge a se stessi. Aspetti estremi di una vita anche avventurosa, dietro la mitezza e l’incarico accademico. “In una mediazione occorre sempre cercare di aiutare le parti a spostarsi dall’oggetto del conflitto, a provare a guardarlo da una prospettiva diversa”. Di sé dice semplicemente di essere uno dei criminologi che, “non solo in Italia, più si occupano di cose concrete, del cuore, dell’anima delle persone, pur senza aver mai perso il mio interesse verso la costruzione di ipotesi teoriche”.
Adolfo Ceretti e Marta Cartabia vengono da percorsi personali, accademici e professionali molto diversi. Ma hanno avuto modo di lavorare sugli stessi argomenti, nella prospettiva di una giustizia che abbia un percorso differente. Alla ricerca di un pensiero ancora “in attesa di essere pensato”, come dicono in un libro scritto a quattro mani: “La costruzione di un sistema che assicuri l’armonia dei rapporti sociali; una cura che salvi insieme assassino e città”. Nemmeno il più ottimista dei Candide potrebbe pensare che tutto cambierà, e presto. Ma i fili riannodati attraverso le molte vite di un criminologo atipico ed empatico sono l’indicazione che certi pensieri possono tornare a essere pensati, più e diversamente da prima. Per sentire forse, come è capitato a Gingio, un bene improvviso che accarezza i capelli.