Qui bisogna difendere gli avvocati

Annalisa Chirico

Spiati, intercettati, inquisiti: numerosi i casi di legali incastrati nelle maglie della giustizia per l’attività zelante di certi pm. Giandomenico Caiazza al Foglio: “La verità è che i parametri del diritto di difesa sono alla deriva”

Gli avvocati sono i nuovi “nemici del popolo”? Avvocati spiati, pedinati, intercettati, inquisiti. Nessuno pretende l’immunità funzionale, non sia mai, ma i casi di difensori che restano incastrati nelle maglie della giustizia per l’attività zelante della pubblica accusa si moltiplicano e, oggi più che in passato, diventano di pubblico dominio in una sequela che solleva pesanti interrogativi su eccessi e forzature del potere inquirente. 

 

In tribunale, a Genova, accade che nel corso dell’udienza filtro nel processo sul crollo del ponte Morandi una ventina di avvocati abbiano protestato pubblicamente dopo aver scoperto di essere stati intercettati dalla procura, non si sa bene a quale titolo. Adesso i legali attendono la distruzione delle conversazioni captate con i rispettivi assistiti, l’ultima parola spetterà al gip, ma la vicenda ha dell’incredibile. Chi conduce le indagini forse agisce legibus solutus o è tenuto a rispettare limiti e vincoli posti dalla legge? Il diritto costituzionale alla difesa vale soltanto per gli innocenti? Come si salvaguarda la dignità professionale degli avvocati e il libero dispiegamento dell’attività difensiva e del segreto professionale quando i pm, con polizia giudiziaria al séguito, sono nelle condizioni di origliare quel che un difensore si dice con il proprio assistito? La parità tra accusa e difesa non esiste se si gioca ad armi impari. O se uno dei due bara. 

 

“E’ un errore del pc”, si giustificò così il procuratore capo di Asti quando sulla stampa venne a galla l’intercettazione massiva di decine di avvocati piemontesi. Ventisette pagine di “foglio notizie su spese della Procura”: riga dopo riga, si leggevano i nomi dei più importanti studi legali sabaudi, tra le circoscrizioni di Asti, Cuneo e Torino, insieme a un nutrito gruppo di giudici onorari e consulenti tecnici. Compulsando la lista, si traeva l’impressione che la procura di Asti avesse condotto un’inchiesta sull’avvocatura dell’intero nord-ovest del paese, in calce all’ultima delle ventisette pagine compariva la cifra complessiva dei costi di tale dispiegamento inquisitorio: 559.221 euro. “E’ un errore del sistema informatico”, ebbe a dire, con tono tranquillizzante, il capo dell’ufficio, Alberto Perduca, ma la questione giunse fino in Parlamento, grazie a un’interrogazione del deputato Enrico Costa, e si concluse con l’intervento minimizzante dell’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede: “La procura ha formulato richiesta di archiviazione, l’ipotesi di intercettazioni illecite non avrebbe trovato riscontro”. Via Arenula annunciò anche l’invio di ispettori “per gli approfondimenti” ma non se ne seppe più nulla. Il foglio spese era contenuto nel fascicolo di un processo per droga con imputati in prevalenza albanesi, concluso con la condanna di venti persone. Non una bagatella ma neppure un procedimento tale da giustificare un esborso per intercettazioni di quasi 600 mila euro. A far emergere l’anomalia era stato uno degli avvocati spiati loro malgrado: l’astigiano Roberto Caranzano, difensore di uno degli imputati nel processo per droga, aveva notato tra le carte giudiziarie quel documento relativo alle spese e gli era balzato agli occhi il proprio nome tra gli intercettati. A distanza di pochi giorni il procuratore capo Perduca dispose l’apertura dell’indagine, poi terminata con una richiesta di archiviazione perché “si tratta di un non accadimento: il sistema ha semplicemente inserito nomi a caso”. Un crash informatico e niente più. 

 

A luglio dello scorso anno è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento l’avvocato Francesco Tagliaferri, già presidente della Camera penale di Roma, assurto alle cronache in quanto legale di Massimo Carminati nel processo Mafia capitale. In particolare, Tagliaferri era imputato a Tivoli per favoreggiamento personale continuato al defunto Giacomo Cascalisci, considerato il capo indiscusso dell’associazione a delinquere ribattezzata “Cosa nostra tiburtina”, la banda che controllava le piazze di spaccio di Tivoli e Villanova (poi smantellata nel 2018 da un’operazione dei carabinieri con 45 arresti). E visto il coinvolgimento personale in qualità di legale di fiducia del boss e dei suoi luogotenenti, con annessa attività di intercettazione massiva, la Direzione distrettuale antimafia lo aveva portato a processo salvo poi chiedere la sua assoluzione in giudizio, con parere positivo del giudice di Tivoli che ha assolto l’imputato perché il fatto non sussiste. E sempre nel raggio della mafia laziale, anzi romana, Ippolita Naso, pure lei difensore di Carminati, è stata oggetto di pedinamenti da parte del Ros, intercettate pure le conversazioni telefoniche con il suo assistito; e l’allora direttore del Tempo Gianmarco Chiocci, che incontrava l’avvocatessa per strappare un’intervista all’ex Nar, è finito a processo per favoreggiamento, infine assolto perché il fatto non sussiste.  

 

E’ ancora più recente il caso di Roberta Boccadamo, finita nel fascicolo riguardante il crollo del Ponte Morandi con tanto di conversazioni con il proprio assistito, Antonino Galatà (ex ad di Spea, società incaricata da Aspi della sorveglianza e manutenzione della rete autostradale in concessione), riversate nell’ordinanza di misure cautelari nei confronti dei vertici di Atlantia. “Quando ho letto l’intercettazione telefonica, sono rimasta basita – ha raccontato in un’intervista l’avvocato Boccadamo – non solo perché veniva intercettata questa conversazione ma perché era stata addirittura trascritta e quindi utilizzata dal gip. Mi veniva attribuita la qualità di ‘compagna’ del mio assistito, non si sa bene sulla base di cosa”. La mattina dell’11 dicembre 2019 Galatà apprende dai giornali di essere sotto indagine e alle 7.50 telefona all’avvocato Boccadamo per capire che cosa sta succedendo. “Hanno trascritto quello che ci siamo detti facendomi passare per la sua compagna – ha spiegato il difensore – E’ stato forse un tentativo pretestuoso per aggirare il divieto di intercettazioni? Mi chiedo se non fossi già stata intercettata in precedenza: questo potrebbe significare che gli investigatori potevano essere a conoscenza di eventuali strategie difensive”. 

 

Il tema è delicato: qual è il confine tra l’interesse pubblico all’indagine e il diritto del privato cittadino a difendersi (anche a costo di omettere talune informazioni o mezzi di prova, per intenderci)? Il codice di procedura penale, all’articolo 103, stabilisce che i colloqui tra difensore e indagato non siano utilizzabili né oggetto di intercettazione (salvo nel caso in cui l’avvocato sia sotto indagine). Il quinto comma dell’articolo stabilisce che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”. Il colloquio tra difensore e assistito, dunque, è inviolabile in quanto mezzo essenziale ai fini dell’attività difensiva che non può subire alcun tipo di controllo esterno. Se tale libertà venisse pregiudicata, il rapporto difensivo risulterebbe compromesso, così come il contraddittorio. Un principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti umani che include il diritto alla riservatezza dei colloqui tra avvocato e assistito tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica”.

 

Ad oggi, gli esposti presentati presso il Csm e la procura generale della Corte di Cassazione non hanno sortito effetti. “Lo studio di un avvocato – ha detto Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma, promotrice di un esposto al Csm sul caso Boccadamo – è luogo dove ogni giorno decine di clienti elaborano strategie difensive e scambiano con il proprio difensore notizie coperte da segreto professionale che la legge protegge da ogni tipo di intromissione o interferenza indebita”. La stessa Camera penale ha sollevato il caso di Pier Giorgio Manca, avvocato 75enne del foro capitolino, indagato dalla procura di piazzale Clodio con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. “Manca è stato videointercettato all’interno del proprio studio legale per un periodo, pare, di quasi due anni – dichiara al Foglio Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali – E’ chiaro che installare una videocamera all’interno dell’ufficio di un avvocato comporta non solo l’indebita acquisizione di informazioni nell’indagine a carico dell’assistito ma anche una intromissione nella privacy di tutti gli altri clienti. Purtroppo nel nostro paese esiste un problema enorme che riguarda la percezione della figura e della funzione del difensore, considerato alla stregua di un fiancheggiatore o di un favoreggiatore dell’assistito; di conseguenza, è sempre più facile che l’avvocato sia coinvolto nelle responsabilità penali dell’assistito. Nel caso della criminalità organizzata ciò è reso ancora più facile dalla previsione di una fattispecie penale come il concorso esterno. Gli avvocati, anzitutto quelli impegnati nei processi complessi di associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti, hanno una vita durissima perché ci vuole un attimo a finire triturati dall’accusa di fiancheggiare qualche forma ndranghetistica o camorristica”. 

 

Ma come si regge lo stato di diritto se gli avvocati diventano presunti colpevoli? “Alla radice di questo fenomeno c’è una fragilità culturale tutta italiana: la concezione liberale del diritto penale è difficilmente digerita e raramente rispettata. La strategia difensiva è di per sé orientata alla protezione processuale dell’assistito, anche rispetto all’indagine: se, per diventare favoreggiatore, è sufficiente interloquire con l’accusato sull’opportunità di rendere o meno un interrogatorio o su come valutare le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, noi avvocati facciamo prima a rinunciare al mandato. E’ il nostro mestiere: la difesa significa anche riduzione del danno, vale a dire ottenere la pena più lieve o il reato qualificato nella forma meno grave. Quando si definisce una strategia difensiva si può pure decidere, del tutto lecitamente, di evitare che taluni comportamenti giungano a conoscenza dell’autorità giudiziaria. L’idea sbagliata alla radice di questi abusi è che la difesa spetti soltanto all’innocente”. 

 

D’altro canto, non è ipotizzabile una immunità ad hoc per l’attività forense. “Noi non abbiamo mai preteso una qualche forma di immunità, non scherziamo. Un avvocato sospettato di essere autore di reati può essere intercettato come ogni altra categoria professionale. Il problema è costituito dalle cosiddette intercettazioni indirette, quando l’intercettato è il cliente: in questi casi, la Cassazione ha stabilito che il divieto di intercettazione riguarda esclusivamente le dichiarazioni rese nell’ambito del mandato difensivo, non ricomprendendo quelle espresse in un contesto ‘amicale’. La difficoltà tecnica insita in questa distinzione è evidente. La verità è che i parametri del diritto di difesa sono alla deriva”. 

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