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La memoria pataccara di Maurizio Avola sulla strage di via D'Amelio

Riccardo Lo Verso

Per chi indaga sulla morte del magistrato e degli uomini della scorta il racconto del pentito non è attendibile, né credibile. Se ancora oggi non si conosce la verità sulla stagione delle stragi bisognerebbe smettere di farsi condurre per mano da ex mafiosi che parlano a rate

"Nient'altro che la verità", s'intitola il libro che segna il ritorno sulla scena di Michele Santoro. Quale verità? Quella sulla strage di via D'Amelio nella quale morì Paolo Borsellino, raccontata dal collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola, killer di 80 omicidi, l'ultimo a iscriversi nella lunga lista degli attori di una sceneggiatura infinita.

 

All'indomani dello speciale andato in onda su La 7, incentrato sui ricordi fuori tempo massimo di Avola, arriva la picconata dei pubblici ministeri di Caltanissetta. Roba da fermate le rotative. Per chi indaga sulla strage di via D'Amelio Avola non è attendibile, né credibile. Se non ci fosse da piangere, verrebbe da ridere: Avola racconta di avere piazzato con le sue mani il tritolo nella Fiat 126 parcheggiata e fatta esplodere sotto l'abitazione del magistrato. Una descrizione dettagliata, la sua: i candelotti erano una dozzina, del peso di circa un chilo ciascuno, la miccia fu messa in un modo e il detonatore attivato in un altro. Questo è troppo persino per un pubblico ministero che ha il dovere della riservatezza. Ed ecco che stamani il procuratore aggiunto Gabriele Paci, che al momento guida la procura nissena sprovvista di un capo, sente l'esigenza di zittire il frastuono delle roboanti dichiarazioni di Avola. Il giorno prima che la macchina venisse piazzata in via D'Amelio il killer era a Catania con un braccio rotto e ingessato. Altro che armeggiare esplosivo in un garage.

 

Ormai sul campo, però, ci sono due verità. Quella mediatica, tracciata dal libro di Santoro e dalla trasmissione di Enrico Mentana. E poi c'è la verità che i pubblici ministeri da anni cercano di trovare, disinquinandola dai pataccari di turno e dalla pessima gestione che altri colleghi magistrati hanno avuto degli stessi pentiti.

  

Per decenni c'è chi ha creduto che un malacarne di borgata come Vincenzo Scarantino potesse avere partecipato alla strage di via D'Amelio. È stato ritenuto plausibile che Totò Riina e soci avessero coinvolto nel piano stragista un criminale di mezza tacca. È finita che una dozzina di processi sono divenuti carta straccia e si è dovuto ricominciare da capo, o quasi, grazie alle dichiarazioni di un altro collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza di Brancaccio. Un mandamento, quello dei potentissimi fratelli Graviano, per anni rimasto fuori dalle indagini. I racconti di Avola e Graviano divergono. Sul primo il procuratore Paci stende un velo pietoso, parla di "elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tali sue ennesime progressioni dichiarative”. 

 

Ed ecco il cuore di una questione che va al di là del già grave singolo episodio e mette a nudo un modus operandi che ha caratterizzato e caratterizza il lavoro di una certa parte della magistratura. 

 

Ad Avola la memoria è tornata ventisette anni dopo essere diventato un collaboratore di giustizia. Prima si è ricordato che fu un commando di siciliani e calabresi ad assassinare, nel 1991 a Villa San Giovanni, il magistrato della Corte di Cassazione Antonino Scopelliti. Lui e Matteo Messina Denaro ne facevano parte. Quindi ha alzato il tiro. Si era dimenticato di un altro peccatuccio e cioè di avere fatto saltare in aria i corpi in via D’Amelio. Un racconto affascinante il suo, se solo solo non si stesse parlando di uomini e donne ridotti a brandelli: “Borsellino scende dalla macchina e lascia lo sportello aperto. Io mi fermo, mi giro e lo guardo, mi accendo una sigaretta. Lo guardo, mi giro e faccio il segnale, verso il furgone a Giuseppe Graviano e vado a passo elevato. Mi dà 12 secondi per allontanarmi".

 

Fiammetta Borsellino, figlia del giudice trucidato con gli uomini della scorta, ospite in studio ieri ha tagliato corto: “Di questo signore non parlo”, aggiungendo però, subito dopo, che “di depistaggio ne abbiamo già subito uno”. E cioè il depistaggio realizzato con Vincenzo Scarantino. Se ancora oggi non si conosce la verità sulla stagione delle stragi forse bisognerebbe smettere di farsi condurre per mano dai pentiti che parlano a rate, attrezzi di scena di una narrazione che dalle aule di giustizia transita nei salotti televisivi.