L'accento giusto sul nome del vicebrigadiere Custra

Maurizio Crippa

La memoria e la storia che non si è fatta sulle vicende legate agli Anni di piombo 

Antonia Custra, la figlia del vicebrigadiere Antonio Custra ucciso il 14 maggio 1977 in via De Amicis a Milano, è morta per un tumore nel 2017. Si seppe allora che nel 2007 aveva deciso di incontrare l’uomo che aveva sparato a suo padre, l’ex terrorista di Prima linea Mario Ferrandi, detto Coniglio (era stata l’inchiesta bis condotta nel 1986 dal giudice Guido Salvini a dare un nome a chi aveva sparato). Erano rimasti in rapporti. Raffaele Ventura, uno degli ex terroristi espatriati in Francia, uno dei due che si sono costituiti ieri, mettendo fine alla “latitanza”, è stato condannato anche per concorso in quell’omicidio di via De Amicis.

 

In un’intervista di qualche anno prima, Antonia Custra aveva detto una cosa sconvolgente, quasi incredibile, ma significativa come poche altre che siano state dette, da parte delle vittime del terrorismo: chiedeva all’allora sindaco Letizia Moratti che venisse messa una targa in memoria del padre, ma soprattutto: “E lo ricordi col cognome giusto, non con quell’accento con cui è stato storpiato e oltraggiato dai giornali e dalle tv per trent’anni: Antonio Custra e non Antonino Custrà”. Si riparla in questi giorni di memoria, e di memoria negata. Ma nemmeno la memoria del nome giusto di un servitore dello stato ucciso dai terroristi il nostro paese ha saputo conservare (non è un modo di dire: in una corrispondenza di ieri da Parigi sul sito di Repubblica si scriveva ancora “Custrà”).


Nel marzo del 1988 al Salone Pier Lombardo di Milano, oggi si chiama Teatro Franco Parenti, un gruppo di ex militanti del “partito armato”, tutti condannati a lunghe pene definitive, mise in scena un racconto, titolo “Labirinto”, che si proponeva di dire con parole non solo quanto era stato da loro  compiuto, ma la loro riflessione successiva, colpe e errori compresi. E’ un ricordo apocrifo: l’ho trovato nel libro di Adolfo Ceretti “Il diavolo mi accarezza i capelli”, di cui il Foglio ha parlato qualche tempo fa. Ceretti, che anche da lì inizierà il suo percorso di “giustizia riparativa”, era presente e lo ricorda per lo choc che fu: per il pubblico, per le vittime e anche per gli “ex”, per l’aspro dibattito che ne seguì. Era il 1988, Aldo Moro era stato ucciso da soli dieci anni,  la “dottrina Mitterrand” era stata enunciata da tre ma gli “expat” erano in Francia da molto prima. Eppure, non si era mai provato non si dirà a cercare una “memoria condivisa”, ma nemmeno a esprimere i fatti con un linguaggio pubblico, con parole che non fossero soltanto quelle dei verbali di tribunale.

 

Sono passati altri decenni, gli ex esponenti del “partito armato” sono diventati altre persone, questo è evidente a tutti. Il modo di erogazione della loro pena, oggi, sarà un problema concettuale nuovo per la giustizia italiana. Sono cambiate anche le vittime? E’ impossibile giudicare, ma è probabile, a volte evidente, che proprio le vittime siano rimaste maggiormente inchiodate a quel periodo, a quei lutti. E per almeno due motivi: uno, che in alcuni o molti casi la giustizia penale non li ha “risarciti” (l’esecuzione in carcere della pena fa parte del risarcimento? Non basta  l’affermazione di colpevolezza? Non conosco la risposta, né giuridica né morale) dalla giustizia dello stato. Due, e più grave, le parole di Antonia Custra: neanche il nome giusto è stato ricordato.

 

Molto dell’emozione suscitata, ancora una volta, dal riaprirsi (o concludersi) delle vicende legate agli Anni di piombo deriva da questo. Quando, almeno, non sia pura stupidaggine o partigianeria politica. Poi certo, c’è “il diritto-dovere dello stato italiano di non far finta di niente se in giro per il mondo ci sono assassini impuniti”, come ha scritto su HuffPost Gian Carlo Caselli. Chi lo negherà? (“E adesso che ve ne fate?”, il commento di Adriano Sofri, è ovviamente molto più di un cinismo polemico). Ma ieri su HuffPost c’era anche una intervista alla storico Miguel Gotor, che si è occupato di fare storia e storiografia del caso Moro. Notava, da storico, che è sempre necessario, o lo diventa a un certo punto, distinguere tra “la verità giudiziaria, la verità storica e quella memorialistica”. Ricordando anche l’insegnamento di Primo Levi, testimone supremo, a diffidare del solo ruolo della memoria, che definiva “strumento meraviglioso ma fallace”. Serve la storia, perché la sola memoria e la sola verità giudiziaria non saranno mai sufficienti. Una guerra civile, nemmeno piccola, c’è stata, e non si può liquidarla, ancora decenni dopo, come pura insorgenza delinquenziale. Ma proprio qui, sul piano della storia, della facoltà di comprendere e rendere giudicabili i fatti, l’Italia non ha mai fatto un passo. In questo la dottrina Mitterrand è stata anche, più che la scappatoia per i fuggitivi, l’alibi per un dibattito pubblico e politico mai nato.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"