Il senso della pena
Cosa ve ne fate? Gli arresti in Francia e due scuole a confronto
È giusto punire a molti anni distanza persone che non risulta abbiano continuato a delinquere?
La richiesta italiana di estradizione di autori di violenze politiche rifugiatisi in Francia per sfuggire all’esecuzione della condanna ripropone, sotto una angolazione problematica, la questione del senso e degli scopi della pena. Perché punire a distanza di 30 o 40 anni dalla commissione dei fatti criminosi persone che, oltretutto, non risulta abbiano continuato a delinquere e avrebbero anzi da tempo adottato uno stile di vita normale?
La complessità dell’interrogativo è accresciuta dal tendenziale sovrapporsi, in questa vicenda che certo esula dai casi fisiologi della giustizia penale, di più dimensioni: storica, politica, morale, giuridica e psicologica (per i forti riflessi emotivi perduranti, in particolare, nelle vittime dirette e indirette delle azioni violente). In linea teorica, per fare maggiore chiarezza, questi diversi piani – come ha ad esempio suggerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica il 30 aprile – andrebbero tenuti analiticamente distinti. Ma è possibile farlo sino a un certo punto, e per più ragioni. I reati di terrorismo, o comunque politicamente motivati, si distinguono dai reati comuni proprio perché – piaccia o non piaccia – non hanno una genesi puramente criminale. E c’è poi da considerare che le distinzioni analitiche, tipiche dello studioso di mestiere, non sono pane quotidiano per l’uomo comune. Ancora, non va trascurato che una divergenza di approccio tra chierici e laici può ben emergere anche nel tentare di dare risposta al problema relativo al senso di una punizione molto ritardata nel tempo. Come studioso di diritto penale incline a mettere il naso fuori dall’accademia, sono infatti non da ora consapevole che esiste una tendenziale divaricazione tra la pena teorizzata nei manuali destinati agli studi di giurisprudenza e la pena sentita nel cuore della maggior parte delle persone digiune di diritto.
Per dirla con approssimativa sintesi, le trattazioni libresche, argomentando anche in base al dettato costituzionale (art. 27, comma 3), fanno ormai a meno di includere l’idea o valore della giustizia tra le attuali ragioni giustificatrici della sanzione penale, prendendo così anche le distanze dalla tradizionale concezione cosiddetta retributiva (secondo la quale si punisce perché è giusto contraccambiare col dolore sanzionatorio il male insito nel reato commesso). Fuori dal riferimento ad astratti obiettivi di giustizia, la pena contemporanea rinvenirebbe la sua principale legittimazione nel perseguire l’obiettivo socialmente utile, ancorché di incerto conseguimento, di prevenire i reati – e ciò mediante la duplice tecnica della prevenzione cosiddetta generale e della prevenzione cosiddetta speciale, entrambe a loro volta articolabili in varie forme su cui qui devo sorvolare.
In questa ottica pragmaticamente orientata, suona in effetti tutt’altro che privo di senso l’interrogativo sollevato giorni fa su questo giornale da Adriano Sofri e rivolto, in forma forse sgradevolmente provocatoria, a registi ed esecutori dell’operazione politico-giudiziaria parigina: “Bravi! E adesso cosa ve ne fate?”. Infatti, che l’incarcerazione di autori di delitti politico-terroristici commessi negli “anni di piombo” possa, oggi, apparire giustificata dalla preoccupazione di prevenire il rischio concreto di future violenze analoghe da parte degli stessi soggetti o di potenziali imitatori, non sembra seriamente sostenibile: se così è, viene meno allora quel basilare fondamento giustificativo del punire sul quale fa leva la teoria della pena attualmente dominante tra i giuristi teorici e pratici.
Ma la pena, come istituzione sociale storicamente stratificata e polivalente, presenta volti e aspetti che trascendono la sua concettualizzazione tecnica nei testi di diritto e nei repertori di giurisprudenza. Essa in realtà, nella mente e nei cuori degli uomini comuni, continua di fatto ad assumere significati e valenze che la teorizzazione giuridica ufficiale si sforza addirittura di cassare o bandire, anche se – a quanto pare – senza soverchio successo. Com’è facile constatare, un senso comune e un orientamento psicologico ancora presumibilmente diffusi (ancorché non sia quantificabile con precisione il corrispondente coefficiente odierno di diffusione) tendono – in maniera più o meno indistinta – a proiettare sul castigo dei colpevoli aspettative generiche di giustizia e giudizi di disapprovazione morale, nonché sentimenti ed emozioni (quali rabbia, indignazione, avversione, rancore o risentimento) riconducibili a registri emotivi non agevolmente distinguibili da quello della pulsione vendicativa: per cui quando la persona offesa dall’azione criminosa o un suo familiare pronuncia la consueta frase “non voglio vendetta, ma giustizia”, la verità o credibilità di questa distinzione non può essere dimostrata in modo attendibile; riconoscerla o meno, implica un atto di fede o una generosa concessione.
Comunque sia, a volere sposare l’ottica del senso comune, per giustificare la punizione tardiva degli ex terroristi non dobbiamo andare lontano: abbiamo ancora una volta a portata di mano il vecchio principio di giustizia in chiave retributiva, per cui in ogni caso è giusto pagare il debito contratto con la società a causa della commissione di un delitto, a maggior ragione se grave. Ecco che, in tal modo, la pena recupera il suo antico legame con l’idea di giustizia: e la pretesa di giustizia finisce altresì col prevalere nettamente rispetto all’utilità sociale sottesa all’obiettivo della prevenzione, della quale appunto in questo caso non sembra esservi effettiva necessità. Possiamo senz’altro tornare ad avallare, ai nostri giorni, questa supremazia della pena “giusta” rispetto alla pena “utile”? Siamo davvero sicuri che, nel contesto accentuatamente pluralista in cui viviamo, il paradigma retributivo rispecchi ancora un’idea di giustizia punitiva suscettibile di essere fatta oggetto – per dirla con Rawls – di un ampio “consenso per intersezione”.
Certo, si può obiettare che neppure la tradizionale pena retributiva sia priva di concreta utilità, rilevando che essa – tra l’altro – è in grado di dare sollievo psicologico alle vittime sopravvissute o ai loro familiari. Pur comprendendo le gravi sofferenze provocate dagli autori delle violenze politiche e manifestando il massimo rispetto per quanti continuano a patirle, dovremmo tuttavia senza falsi pudori chiederci: fino a che punto la punizione del colpevole attenua le sofferenze e rimargina le ferite psicologiche causate dagli atti criminosi? Gli studi di psicologia della vittima in realtà evidenziano che il cuore delle vittime è attraversato da sentimenti confusi e contraddittori, come è normale che sia, e che il castigo anche rigoroso dell’autore del crimine reca loro un beneficio psicologico tutt’altro che univoco e duraturo: per questo, da parte di alcuni studiosi non si è mancato di prospettare l’esigenza di dar vita in futuro a un nuovo binario di “rieducazione delle vittime”, da affiancare al preesistente binario della rieducazione dei rei e da attribuire alla competenza (piuttosto che della giustizia penale in senso stretto) di esperti psicologi e di operatori socio-assistenziali.
Ai limiti della giustizia penale propriamente detta ha accennato, in verità, anche la ministra Marta Cartabia in un’intervista rilasciata l’indomani del blitz parigino (cfr. la Repubblica del 29 aprile). Oltre ad avere espresso comprensibile soddisfazione per l’atto di fiducia verso la democrazia italiana finalmente manifestato dalla Francia, il guardasigilli ha tenuto a esplicitare che la richiesta di estradizione nasce non solo da sete di giustizia, ma anche dal bisogno di fare chiarezza e da una “reale possibilità di riconciliazione”; sottolineando, nel contempo, che “Non ci può esserci riconciliazione senza verità”. Cartabia ha così inteso, nel complesso, fornire una giustificazione politico-culturale della cattura degli ex terroristi incentrata sull’interazione di tre importanti valori: giustizia-verità-riconciliazione. In linea di principio, si tratta di un approccio nobilmente intenzionato,che lascia altresì trasparire una convinta apertura verso i paradigmi della giustizia cosiddetta riparativa. Ma possiamo ritenere che vi sia effettiva congruenza tra un simile approccio politico-culturale, in sé apprezzabile e le caratteristiche del caso concreto di cui discutiamo?
Come è stato già rilevato, sul piano storico-ricostruttivo non ci sono grosse novità da acquisire, avendo i processi già celebrati in Italia accertato quasi tutto e, comunque, molte cose (lo riconosce, ad esempio, Luciano Violante nel Corriere della sera del 30 aprile). Se così è, l’enfasi posta sul fare chiarezza e verità si ridimensiona non poco. Non meno problematico appare, a ben vedere, il riferimento alla riconciliazione. Riconciliarsi con chi e in che modo? È da escludere che la ministra abbia voluto alludere ad una riconciliazione con lo Stato o con la società concepibile come idealmente implicita - nel solco di una vecchia filosofia idealistica – nel semplice fatto che il reo sconti una pena. Piuttosto, Cartabia alludeva – come emerge dalla parte finale dell’intervista – ad una riconciliazione concepita nel senso appunto della giustizia riparativa, cioè da cercare di perseguire mediante il modello della cosiddetta mediazione invero già sperimentato in alcuni casi pure tra autori e vittime (o loro familiari) di violenze inquadrabili nella lotta armata degli anni 70. Senonché si tratta del richiamo di un percorso che, per quanto suggestivo, non può che rimanere allo stato vago e assai incerto. Non solo perché l’avvio degli incontri riparativi, lungi dal poter essere imposto, presuppone una volontaria adesione psicologica di tutti i protagonisti del potenziale dialogo mediativo che non può essere data per scontata.
Ancor prima, non sappiamo se tutte le procedure di estradizione giungeranno a buon fine considerati i numerosi ricorsi annunciati dalle agguerrite difese (che prevedono di ricorrere anche alla Corte europea di Strasburgo) e, soprattutto, non ne conosciamo i tempi che potrebbero anche risultare lunghi. Se si dovessero attendere alcuni anni, come qualcuno prevede, gli autori dei delitti in questione diventerebbero ancora più anziani e crescerebbe il loro rischio di incorrere in condizioni patologiche poco compatibili con la reclusione carceraria, per cui l’esecuzione della pena potrebbe in definitiva essere per lo più destinata a svolgersi nelle forme alternative alla detenzione (semilibertà, detenzione domiciliare ecc.) previste dall’ordinamento penitenziario. Trattandosi di modalità sanzionatorie ben più miti e tollerabili di una vera e propria detenzione, la loro valenza finirebbe con l’essere più simbolica che afflittiva; la pena, insomma, fungerebbe soprattutto da medium comunicativo di una censura pubblica volta a veicolare o ribadire questo duplice messaggio: i crimini politico-terroristici producono gravissime ingiustizie e, nello stesso tempo, contraddicono profondamente la logica democratica.
Ma c’è davvero bisogno di una eventuale punizione tardiva e attenuata per replicare questo messaggio o renderlo più credibile? Se è ragionevole dubitarne, sembra anche legittimo ritenere che l’aspetto più significativo dell’intera vicenda riguardi, piuttosto che la giustizia punitiva o riparativa strettamente intese, il più generale versante delle relazioni politico-istituzionali tra due importanti paesi europei: in altre parole, non è senza importanza che la Francia sia ormai disposta a riconoscere che pure l’Italia ha le carte in regola come stato di diritto.